Un critico ha paragonato i suoi film a quelli di Woody Allen, ma con il volume dell’angoscia messo al massimo. Solondz risponde che se abbassasse quel volume, forse anche lui riuscirebbe a fare un mucchio di soldi. Ci sono personaggi che dicono molto di se’ già con la loro fisicità, e Todd Solondz è sicuramente tra questi: 48enne smilzo e gracilino, andatura dinoccolata e con un paio di occhiali dalla montatura improbabile. Potrebbe benissimo essere, così com’è, il protagonista di uno dei suoi stessi film, di quei tanti personaggi in fuga verso un eterno ritorno (Palindromi), anime sole e un po’ sfigate alla ricerca di una felicità (Happiness) che l’ambiente circostante e l’esistenza sembrano precludere. Il mese scorso lo abbiamo incontrato all’Auditorium di Roma grazie agli incontri di Viaggio nel Cinema Americano di Mario Sesti e Antonio Monda.
Cineasta della provincia americana (New Jersey per l’esattezza), Solondz frequenta poco entusiasta la New York University per due anni, poi alcuni corti, un primo lungometraggio e finalmente si conferma autore – del realismo e dell’assurdo al contempo – grazie al suo secondo film: Fuga dalla scuola media. Ed è subito cinema solondziano, il cui modaiolo suffisso sta ad indicare un immediato consenso da parte della critica. Ma non dei produttori o della distribuzione, che tagliano e censurano, e spesso neanche considerano, appena possono. In Italia sono distribuiti solo il secondo sopracitato e il terzo lungometraggio (Happiness), il suo film più apprezzato. Poi Storytelling e Palindromi vengono ignorati se non fosse per alcune apparizioni festivaliere e uscite sotterranee in dvd (Dolmen Home Video per Palindromi).
Disturbano forse i temi e le problematiche trattate: pedofilia, sessualità irrisolta, stupro, aborto, ma anche inadeguatezza del vivere sociale e soprattutto drammi, contraddizioni e bizzarrie dell’adolescenza. “Credo che i bambini e gli adolescenti siano un mondo interessante in quanto ci dicono qualcosa di noi come adulti. Nella vulnerabilità di questi bambini, in questa età così tenera ma anche così centrale, c’è qualcosa di estremamente rivelatorio”. Piccole miserie umane ed esistenziali di un’America che mostra il suo lato culturale più infelice, contropartita stridente di una nazione che diffonde una patinata e progredita immagine di se stessa. “Io sono cresciuto nel New Jersey, non che ci sia qualcosa di particolarmente terribile nel crescere lì. Ora non guardo a quel posto con nostalgia, né credo ci sia qualcosa di particolarmente bello o brutto. Finito il college, intrapresi un viaggio con un amico per il resto del paese, è stata una esperienza che mi ha aperto la mente, mi sono reso conto di quanti posti ci fossero molto più brutti del N.J. Il New Jersey è per me il cuore vero del paese, il mio paese non è le varie grandi città, ma questi sobborghi. Più che attaccare e criticare questi posti, per me è più interessante capire le attrattive e le seduzioni che esercitano”.
Ma ogni aspetto è rappresentabile in molteplici modi, e sappiamo allora che di Solondz disturbano non tanto i temi affrontati, quanto le soluzioni registiche con cui questi vengono rappresentati: sguardo cinico e ironico, impietoso verso i suoi personaggi, pratiche aberranti messe in scena nella loro quotidiana normalità, uno sguardo lucido tanto verso il pedofilo quanto verso l’adolescente vittima. “Quando ho scritto la sceneggiatura (di Happiness, n.d.r.) non mi sono messo a pensare al fatto che il film avrebbe potuto spezzare tabù o far scaturire forti polemiche. Penso solo al fatto che la storia abbia un senso e ai personaggi che mi interessano”. Se tra le righe dei suoi film è ravvisabile da che parte protenda, a livello formale Solondz preferisce l’indagine alla denuncia: “Credo che un film dogmatico, fatto per persuadere, in realtà non raggiunga quasi mai il suo obiettivo. Convincere a votare qualcuno o a cambiare opinione non è così facile come il regista vorrebbe che fosse. Un documentario come quello di Michael Moore, sebbene abbia avuto così tanto successo, continua a farmi chiedere se veramente è riuscito a cambiare l’opinione anche di un solo spettatore. Credo che gli spettatori pro Bush abbiano interpretato alcune scene del film in maniera dal tutto diversa dagli intenti del regista. Penso che la capacità di far cambiare opinione sia un fenomeno raro e difficile. Nonostante questo credo che il cinema abbia un suo potere, e non è necessario nemmeno che sia un buon film a esercitare questo potere: quello di farci guardare alla vita in una prospettiva che non avevamo prima, a cui non avevamo pensato, mostrarci la vita in maniera diversa. Ma spesso di questo il regista non ne è nemmeno consapevole”. Solondz nutre curiosità e spirito esplorativo nei confronti di ognuno dei suoi personaggi, non c’è un vero protagonista ma una corale rassegna di solitudini e umanità tanto surreali quanto realistiche. Quello di Solondz è un personale modo di fare cinema cui corrispondono specifici meccanismi della compartecipazione da parte dello spettatore: e così, con un vago senso di colpa, ci si trova a sorridere amaramente sulle pene altrui, o a vivere in tutta la sua normalità l’esistenza quotidiana di un pedofilo padre di famiglia della middle class (Happiness). L’immedesimazione che potrebbe scaturire nei riguardi di alcuni dei suoi personaggi è spesso soffocata per dare medesima rilevanza e ragion d’essere ad ogni figura. Se in Palindromi, dove la dodicenne Aviva fugge per rincorrere il suo desiderio di avere un bambino attraversando molteplici assurde esperienze, l’immedesimazione nei confronti della protagonista sembra questa volta assicurata, ecco che Solondz disorienta e mina l’empatia dello spettatore, lasciando interpretare il personaggio di Aviva a una dozzina di attrici diverse, per corporatura, età e colore della pelle. Perché non ci sono buoni o cattivi nei film di Solondz, e se ci sono, ognuno di essi ha un’aura di segno opposto che lo avvicina all’altra parte della dicotomia: “…quando ho realizzato Palindromi, ho illustrato queste due famiglie: quella abortista a favore della scelta, ma che non concede alcuna scelta; e quella pro-life, a favore della vita, ma che uccide. Comunque io non avevo alcun interesse a convertire le persone a essere abortiste o anti-abortiste, non credo che questo sia un modo efficace né tantomeno mi interessava in quanto regista. Volevo semplicemente esaminare la mutevolezza e al contempo l’immutabilità della natura umana”.Chi lo avrebbe mai detto che per alcune scene dei suoi film Solondz si fosse addirittura ispirato a grandi maestri come Hitchcock e Visconti? A Intrigo Internazionale, nella scena del bullo di Fuga dalla Scuola Media o a Bellissima, nella proiezione del documentario in Storytelling. A testimonianza di quell’affascinante sedimentazione della memoria cinematografica che influenza percezioni e ibrida la realtà di ogni regista, sceneggiatore, critico o appassionato: &ldqu
o;Noi non possiamo mai scegliere cosa scrivere, non credo nel libero arbitrio in questo campo. Quando ci si accinge al processo della scrittura, questo è un processo di grande solitudine, perche si è davanti al foglio e alla penna. Io questo film, (L’ombra del dubbio), non lo vedo da vent’anni, eppure mi è rimasto in mente, mi ha colpito in una maniera in cui io stesso non ero consapevole. Anche quella sequenza di Intrigo Internazionale, l’ho tirata fuori così dal nulla, anche se erano anni che non la vedevo. La sensazione che ho, è che i film si vadano a collocare nella mente senza averne consapevolezza.
A volte si ha l’impressione che Solondz tenda a ripetere un po’ se stesso, altre volte invece intraprende strade più inedite e personali, come quelle di Storytelling, dove riflette sul ruolo della narrazione e indaga il rapporto tra finzione e realtà. Per noi l’augurio resta quello di riuscire ad avere altro cinema “solondziano”, a dispetto degli innumerevoli problemi produttivi e distributivi che incontra.