Terry Gilliam ha sempre declinato il suo sguardo secondo le esigenze espressive di un modo di sentire e vedere riassumibile forse in tre concetti fondamentali: desiderio, immaginazione, follia. Tre qualità del pensiero che, messe in relazione tra di loro, danno vita a un surplus di visionarietà e libertà che spezza da subito i vincoli con un’impostazione di stampo realistico e catapulta con immane violenza dentro quella realtà che sembra familiare e conosciuta, ma che non è altro che la proiezione distorta e malsana di un incontenibile bisogno di sognare.
Anche la storia di Jeliza Rose, la bambina senza tempo di Tideland, è inquadrata immediatamente nel segno lasciato dalla discrepanza tra l’enormità dei desideri e l’impossibilità di realizzarli in una dimensione terrena, tangibile. Il padre di Jeliza – un Jeff Bridges incrocio triviale e patetico tra il “Dude” de Il grande Lebowski e il dj de La leggenda del re pescatore – usa l’eroina come un mezzo di trasporto extrasensoriale per raggiungere lo Jutland, la terra danese celebrata dal sangue dell’Amleto. La madre, nelle sembianze sfatte e irriconoscibili di un’attrice perduta come Jennifer Tilly, muore, o meglio, “si addormenta” uccisa più dalla sua smaniosa dipendenza dal cioccolato che dalla droga. Ed è su questa dialettica tra morti dormienti che sognano l’altrove dei loro desideri, negati dalla prigione del corpo e della materia, e vivi incarcerati che evadono la realtà ricreandola con un tocco di perversa immaginazione che Gilliam pone l’asse della visione non tanto sbilenca, quanto ondeggiante tra gli sbandamenti mentali di Jeeliza.
La minacciosa casa della nonna paterna di fiabesca memoria e la sterminata prateria che la circonda vengono capovolte di senso e acquistano il valore di un’isola sconosciuta e misteriosa (l’isolamento come estraneità e alienazione) e di un oceano popolato da creature meravigliose e pericolose, dando la sensazione di stupore provocata da un primo, ignaro sguardo esterno sul mondo. Lo stesso Gilliam ha parlato di un incontro tra Alice nel paese delle meraviglie e Psycho e probabilmente si è anche trattenuto in questa analisi rispetto al punto dove si è spinto con la sua macchina da presa.
Alice/Jeliza non incontra solo Norman Bates, pure esplicitamente citato nella scena del padre ormai salma, trasformato dalla figlia in una versione grottesca con parrucca e trucco della nonna, e il suo viaggio fantastico la fa atterrare sul territorio melmoso e devastato della demenza, della malattia mentale, della sessualità deviata, della schizofrenia. Jeeliza è Alice, Norman Bates, Jodie Foster bambinaassassina in Quella strana ragazza che abita in fondo al viale, l’infazia di Laura Palmer, il passato dietro lo sguardo di Isabella Rossellini nel finale di Velluto blu. E’ la capacità di deviare il trauma ancestrale della morte sui binari di un’immaginazione che va in una sola direzione e che non prevede ritorno.
L’animazione delle teste di Barbie, in cui Jeliza scompone e perde gradualmente voce e personalità, non è affidata a nessun effetto speciale o particolare trucco ottico: si manifesta nel potere di autosuggestione e suggestione che la bambina e Gilliam, in quanto mentore della sua visione, inducono in chi sta guardando, attraverso una consapevole padronanza degli spazi e dei tempi dell’alienazione mentale, rendendo sterile e inadeguato l’atteggiamento dell’osservatore asettico che si affanna nel dare interpretazioni sociologiche o psicanalitiche, quando ciò che viene richiesto è il prezzo altissimo dell’abbandono all’iperbole dell’incanto e dell’orrore.
L’osceno e l’inaccettabile non stanno tanto sulla superficie del racconto di Mitch Cullin da cui Gilliam prende il via, anche se di situazioni forti, di sovraccarica iconoclastia nei confronti del mondo dei sani e ragionevoli ce n’è in abbondanza: ad esempio nelle allusioni erotiche del rapporto tra Jeliza e Dickens, amico della porta accanto deviato nell’immagine di un ritardato mentale epilettico e ossessionato dalla dinamite, o ancora nella deturpazione del quadretto familiare di una dimenticata America rurale con lo stesso Dickens e con Dell, terrificante sorella castratrice necrofila e sessuomane, e il cadavere della loro madre decomposta e imbalsamata, incorniciati nell’inferno di un’inquadratura pop o nei colori sparati, dark nell’anima e nelle vesti, di Dell.
Ancora una volta il cinema di Gilliam ci suggerisce che il mostro va cercato all’interno, nelle viscere, nella parte più remota e non emersa del desiderio. Lo stesso mostro che si trova in fondo a un buco di terra nella prateria o nella pancia del padre di Jeliza, è il mostro che aveva divorato fino alla follia Sam Lowry contro la dittatura tecnocrate in Brazil, il barone Munchausen contro i viaggi ai confini del tempo e dello spazio, il Parry alla ricerca del Santo Graal contro la violenza della metropoli disumanizzata, perfino un mai compiuto Don Chisciotte contro i mulini a vento. Tutti personaggi che trasformano la miseria in grandezza, che si lasciano divorare dal mostro e risputare nei luoghi del sogno, che siano lo Jutland o la Luna. Come nel toccante addio che Jeliza dà al padre, del quale non ammette la morte ma solo la possibilità di incontrarlo nello stesso sogno. Prima che gli ultimi fuochi dell’esplosione brucino dentro i suoi occhi e lo schermo diventi nero.