di Fabrizio Croce/ “Confusi con la pioggia sul selciato, sono caduti gli occhi che vedevano gli occhi di Nannarella che seguivano le camminate lente sfiduciate ogni passo perduto della povera gente. Tutti i selciati di Roma hanno strillato. Le pietre del mondo li hanno uditi”.
Con questi versi Eduardo De Filippo salutava e celebrava Anna Magnani, all’indomani della sua morte avvenuta il 26 settembre del 1973, 47 anni fa, in un mondo che sembra, anzi, è distante anni luce da quello in cui viviamo ora, generato da altri mondi che si sono susseguiti e mutati nel corso del tempo e che, un po’ facilmente appiattiti sulla contemporaneità , hanno smarrito poco alla volta quel senso di sacro, di ancestrale, di archetipico che una figura come la Magnani conteneva in sé e che le parole di Eduardo trascendono, in particolare con l’immagine dei selciati secolari che tra di loro si urlano il dolore per la scomparsa della guerriera, dell’Artemide degli ultimi e dei dimenticati, incarnata in una figura che, proprio come un’icona, non aveva visto la sua immagine logorata e consumata dal tempo: i capelli rimasti corvini, gli occhi nerissimi attraversati da quel lampo selvaggio ,il volto e la risata aperti e fieri, il corpo ancora vibrante eros, desiderio , carnalità contro ogni cliché anagrafico ed estetico.
Anna non aveva però la distanza e l’irraggiungibilità della Dea/Diva del cinema, una funzione costruita dalle sovrastrutture e dalle manipolazioni dell’ Industria che produceva distrazione e non creava dissenso; al contrario, tornando al concetto delle divinità del pantheon greco, era attraversa dalle contraddizioni e dalle pulsioni della vita, ed era percepita e sentita come vicina, in mezzo alla gente, che qui chiameremo con il nome più pertinente e preciso all’altro soggetto di questa relazione di amore sfociato in una viscerale, sanguigna venerazione ricambiata : Il Popolo.
Per questo è importante ricordare Anna Magnani questo 25 Aprile 2020, perché oggi più che mai è necessario tornare a quel concetto di Popolo, di Piazza, di Marcia per un valore, la liberazione dalla dittatura nazi-fascista, che non può essere ridimensionato, mercanteggiato, rimosso o revisionato.
È curioso che la necessità di ricordare l’ Anna Magnani battagliera e schierata , che nel finale della sua carriera, nel 1969,è tornata ad interpretare la matura e coraggiosa compagna di un partigiano ( in 1943: un incontro, uno dei ritratti di donna dedicatole da Alfredo Giannetti) , mi sia stata suscitata proprio dalla recente, nuova visione di uno dei suoi film più sofferti e meravigliosi: in Mamma Roma ,la seconda esplorazione pasoliniana (poetica eppure desolante, intrisa di pietas e dolcezza ma laconica e disperata) nelle viscere del mondo del sottoproletariato romano , quello delle “camminate lente e sfiduciate della povera gente” , c’è una Magnani che interpreta un donna pronta a tutto pur di riscattare la sua condizione di emarginazione e stigmatizzazione sociale a cui la prostituzione l’ha condannata; e , per fare questo passaggio, questo salto sociale, non esita a vestirsi con l’ aggressività e la meschinità della classe piccolo borghese , servendosi del ricatto e della manipolazione. Un personaggio ambiguo e tormentato (si ,anche da un senso di colpa cattolico), che nelle intenzioni di Pasolini, annunciava, tragicamente, la trasformazione di quell’umanità ai margini, fuori dalle regole sociali, dall’orizzonte individualistico e opportunistico del “miracolo economico”, ma attacca ad una vitalissima ( e insieme precaria, fino alla morte), sopravvivenza: questo tema, o meglio, sentimento, emergeva principalmente in Accattone e nella rivelazione dell’inedito, strabordante Franco Citti, volto e corpo avulsi dalla tradizione dell’arte attoriale ( per la voce, era invece doppiato da un “signor professionista” come Paolo Ferrari) . La dualità della figura della Magnani ( così profondamente calata nell’identità di popolana e al tempo stesso capace di trasfigurare e interpretare, in contrapposizione con la spontaneità e “incoscienza” degli attori non professionisti) poteva pestarsi alla constatazione amara dell’imborghesimento del proletariato nella nuova , feroce logica del consumismo (nel film Mamma Roma compra una moto al figlio ritrovato, pensando di contenerne il disagio e il disorientamento ).
Però la Magnani (che in seguito dichiarerà di essersi sentita “usata” da Pasolini) fa di Mamma Roma anche altro: le dona una forza , una luminosità, un’energia che appartengono più alle borgatare urlatrici ed idealiste del neorealismo ( L’onorevole Angelina, su tutte, ma anche lo scatto di dignità di Maddalena Cecconi nel finale di Bellissima) e crea un movimento contrario e oppositivo alla volontà ineluttabile del suo regista-poeta che comunque a tratti ne rimane sedotto e le concede la sua propria dimensione epica e arcaica: su tutti, il folgorante inizio con lo stornellate in dialetto romanesco durante il matrimonio del suo ex protettore in un casolare di campagna, in mezzo agli animali che invadono la sala; la camminata/piano-sequenza di notte nel quale volta le spalle, pur celebrandola, alla sua vecchia vita da prostituta( “te passo a staffetta” dice uno dei suoi interlocutori ad un altro che lo succedde, mentre Mamma Roma continua a camminare e a raccontare le miserie della sua giovinezza) ; quel contro-campo finale dalla finestra della Basilica di San Giovanni Bosco di fronte al suo volto di madre/Madonna segnata dalla morte/martirio del figlio.
Momenti di Anna che ci colllegano all’incontro della Magnani con Giuseppe Ungaretti, quando il poeta l’ aveva scoperta e scolpita nel selciato della sua memoria personale, nella memoria collettiva di un popolo e in quella più filologica della Storia del cinema, attraverso semplici, mirabili, evocative parole : “T’ho sentita gridare Francesco dietro il camion dei tedeschi e da allora non ti ho più dimenticata”.
Ecco, oggi andrebbe mandata in loop, su tutte le facciate dei palazzi o sopra i balconi che intoneranno Bella ciao, quella sequenza così potente e tesa di Roma città aperta ,non soggetta a nessuna retorica o normalizzazione a icona di un’ideologia o di un modo di fare cinema perché ancora intatta nella sua urgenza e radicalità , in cui Anna , che fa Pina (ispirata alla figura di Teresa Gullace , uccisa dai Nazisti mentre cercava di parlare con il marito arrestato), si ribella ad un soldato tedesco ,lo chiama vigliacco, lo schiaffeggia e corre verso il suo compagno catturato urlandone il nome , prima di essere falciata da una scarica di mitra, con il figlioletto piangente e disperato che si getta a sua volta sul suo corpo rispondendo a quel grido ( “Tutti i selciati di Roma hanno strillato. Le pietre del mondo li hanno uditi”).
È importante ripercorre ogni inquadratura, ogni gesto, ogni suono di una simile sequenza , riproposta, settacciata, analizzata in ogni dettaglio; in questa maniera possiamo continuare a comprendere le ragioni per le quali Anna Magnani ci sta parlando di qualcosa che esce fuori dai confini temporali, il 1945, e materiali, la Celluloide ( tra l’altro così si intitolava un film affettuoso ma non memorabile che Carlo Lizzani dedicò alla lavorazione del film). La capacità di definirsi, di prendere una posizione attraverso il proprio corpo e la propria voce , di pagare anche nel più definitivo dei modi la conseguenza di una scelta in maniera consapevole e quindi etica (Pina sa il rischio che corre e sa che è giusto correrlo: “Tu non devi aver paura, perché noi siamo nel giusto” , le aveva detto in un precedente dialogo Francesco ) sono tutti movimenti che possono realmente lasciare un segno e spostare la prospettiva, sovvertire l’indifferenza o la sterilità dell’atto virtuale , in cui tutto rischia di perdersi nell’aggiornamento della pagina di un profilo o dell’esaurimento di una storia su Instagram, che appiattisce il tempo su un linea sempre attuale e sovrapponibile o intercambiabile, privata dello spessore di quello che resta o che deve venire.
Ricordo la prima volta che vidi morire Anna/Pina: ero piccolo ed ero convito che quell’attrice fosse realmente morta mentre girava quel film e che una caduta così scomposta e precipitosa fosse stata causata da una vera fucilata….. era come vedere la morte al lavoro che entrava nel campo dell’immaginazione e della rappresentazione.
Ora una tale morte , con tutto ciò che viene immediatamente prima, rientra nello spazio della realtà e di un processo di coscienza storica sul nostro presente, diviene il monito e il custode, il collante e il motore per elaborare pensiero critico e commossa indignazione (ah, il potere liberatorio del pianto!) sulla prepotenza, l’abuso, la privazione e la limitazione delle libertà individuali e dell’ associazionismo. Il ridursi a passive e indifferenti monadi,nel contestuale stato di isolamento, sospetto e controllo, è la terra di nessuno su cui nuove esecuzioni sommarie potrebbero consumarsi; e non cadrebbero più corpi sul selciato , ma la nostra possibilità di definirci liberarmene in quanto donne e uomini, in relazione con la società in cui viviamo e le sue mutazioni (questa sarà, probabilmente, la vera nuova fase della Pandemia).
Anna Magnani, così eterna e così presente , ci spinge con furia ed entusiasmo fuori dalla grotta platonica dell’apatia e dell’indolenza, a rivendicare un posizione nel mondo.
E noi ci accorgiamo che, dopo averla sentita gridare, non l’abbiamo più dimenticata.