Presentanto alla Festa del Cinema di Roma nel 2006, This is England a distanza di cinque anni, dopo chissà quale tortuoso cammino, trova finalmente visibilità in quelle poche sale cinematografiche italiane che hanno avuto il merito di riproporlo. Nel frattempo ci si chiede se il film abbia perduto intensità di vita o se, al contrario, alla luce dei recenti avvemimenti d’oltremanica e del tema trattato, non abbia beneficiato di una spinta di attualizzazione ulteriore. Per il regista Shane Meadows le codizioni sociali del paese sono profondamente mutate rispetto al contesto nel quale è stato ambientato il film, gli anni ottanta thatcheriani. Oggi la violenza è determinata da un disagio generato dalla crisi economica, dalla crescente disoccupazione e dalla difficile integrazione delle nuove ondate di immigrati. Eppure questi tre elementi sono fortemente presenti nel suo film. La politica radicalmente liberista della Thatcher comportò l’esclusione dal mondo del lavoro di molti giovani appartenenti ai ceti più bassi della scala sociale e aprì una fase di conflitto che si espresse in varie forme. Una delle quali vide la proliferazione di gruppi controculturali di vario colore e orientamento.
Shane Meadows conosce bene ciò che racconta. Conosce il malessere diffuso tra i ragazzi inglesi della provincia e conosce il mondo degli skin heads. Tratto tipico della cultura giovanile sotterranea di quegli anni. Nei titoli di testa scorrono i segni di un’epoca. Drammatici, come le immagini della guerra delle Falkland-Malvinas, o di costume, come il cubo di Rubik e i videogames. Un immaginario che si condensa nella sapiente fotografia di Danny Cohen, livida e plumbea. Come erano quegli anni sotto la coltre plastificata del rampantismo e dei soldi facili. Decadenti e rassegnati come chi ha perso il padre in una guerra combattuta per un’isola inutile posto all’estremo sud del mondo.
Shaun ha undici anni, vive con la madre ed è continuamente vessato dai propri compagni di scuola. Trova benevola protezione presso un gruppo di skins e in particolare del loro leader Woody, che lo prende in simpatia e lo fa entrare nel gruppo. Shaun si diverte, è accettato e ottiene anche il permesso della mamma a frequentare i nuovi amici. Tutto sembra perfetto fino al ritorno di Combo, vecchio amico di Woody. Uscito di galera dopo tre anni e mezzo, farà precipitare le cose dentro una spirale di violenza e razzismo.
Meadows descrive il doppio volto degli skin heads. Quello originario, non violento, dedito alla musica reagge, punk, ska e quello sopraggiunto in seguito, violento, deviato, inquinato dalle idee razziste. Mostra un conflitto interno ad un piccolo gruppo connotato da riti, avventure, disagio e l’immancabile divisa di ordinanza: Dr. Martins, bretelle, camicia e teste rasate. Dietro questa fotografia affiora però un paese dominato da emarginazione, xenofobia e orizzonti chiusi. Una provincia arida e annoiata che cerca il senso della propria esistenza nel rifugio esiziale dei falsi miti. Nazionalismo, odio etnico, violenza non sono altro che sintomi esterni di patologie ben più profonde che attaccano la sfera sociale. Le forze disgreganti di un malessere che si allarga inesorabile sullo sfondo del matrimonio in mondovisione di Carlo e Diana. Questa è l’Inghilterra degli anni ottanta che ci racconta Meadows. Il suo sguardo impietoso non si rivolge contro i personaggi del film. Loro sono vittime del vuoto che li avvolge. E il regista se li coccola almeno fin dove riescono a combattere il loro disagio con la fantasia. La colonna sonora scelta da Meadows non solo contestualizza perfettamente la storia che ci racconta, ma costituisce l’altra faccia del paese, quella che ha prodotto una miriade di movimenti e tendenze che hanno dato voce e rappresentanza universale a tutte le ribellioni. Il prodotto creativo del disagio. E forse è anche una chiave per capirlo.