Una brutta copia di Sex and the city, o versione remake – il secondo, dopo Sesso debole di David Miller – della pungente commedia di George Cukor del 1939, dallo stesso titolo, è forse la definizione più gentile per questo film dell’esordiente Diane English. Imparagonabile il cast – dove alla Joan Crawford di Cukor è subentrata la volgare Eva Mendes, a Norma Shearer una Meg Ryan che ha lasciato al chirurgo plastico il volto espressivo e simpatico col quale l’avevamo conosciuta e a Rosalind Russell una Annette Bening acida e in carriera – come l’impianto narrativo privo dell’ironia pungente di Cukor e infarcito di luoghi comuni sulla generazione di quarantenni riccone, annoiate fra estetista, shopping e pettegolezzi da copertina patinata. Della commedia originale di Claire Booth Luce – a cui si ispirano tutte le versioni cinematografiche – resta poi solo il gioco narrativo di escludere la presenza maschile da qualunque scena o ripresa. L’unico maschio a comparire verso la fine del film della English, sarà un neonato partorito fra grida isteriche, svenimenti lesbo e conversazioni insulse al telefonino.
Mary (Meg Ryan) casualmente viene a conoscenza del tradimento del marito con la commessa di una profumeria e, circondata dall’affetto delle amiche, cerca di affrontare la situazione, salvo poi essere tradita da una di loro: Sylvia (Annette Bening) che per salvare la carriera vende la storia di Mary a una rivista. Fanno da contorno l’amica lesbica (Jada Pinkett Smith) e la sforna-figli come la mamma di Mary che impartisce lezioni di vita con la faccia gonfia di botulino e la vecchia governante (Cloris Leachman) cinicamente impicciona, ma dal cuore tenero. Della commedia c’è il ritmo e qualche battuta, nonostante manchi l’essenza – tanto le conversazioni sono banali e sciocche che in alcuni momenti si sfiora la noia – di quell’humor sagace del quale Cukor aveva vestito i suoi personaggi.
Colpisce che la regista – donna e al passo con i tempi – riproponga nella versione peggiore la trita immagine di un mondo al femminile fatto di belletti, vestiti e conversazioni annoiate, quando non di risentimento verso gli uomini, salvo poi parlare sempre di loro. Di donne in carriera annoiate dal lusso, che sembrano amiche più per passatempo che per reale affetto, soffocate dal trucco come dalle case eleganti nelle quali vivono. Perse in negozi di biancheria che probabilmente non useranno che per guardarsi allo specchio, mentre i loro compagni consumeranno sesso consolatorio con manicure e “spruzzatrici” – come vengono chiamate le commesse del banco dei profumi – intanto che loro organizzano feste di beneficenza, vanno dal parrucchiere o lavorano. Direi che ce n’è abbastanza per un nuovo ’68 liberatorio, per un rogo purificatore di quest’immagine stantia della donna di ieri, ignara dei cambiamenti sociali e noiosamente maschilista. Ma anche di luoghi comuni da commedia brillante che non fanno più ridere. Di isterie uterine e banalità commerciali che intasano le sale di annoiati mangiatori di pop corn.