Perchè sì |
Perchè no |
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di Abramo Teodoro Balsamo Sull’ultimo film di Martin Scorsese, uscito nelle sale italiane a fine gennaio, è già stato scritto molto. Una ricerca su Google (Italia) restituisce una lista lunghissima di recensioni pubblicate su altrettante testate, specializzate e non, quasi tutte concordi nell’attribuire al lavoro di Scorsese grandi qualità. Rarissime le critiche negative: una registrata finora su Carmilla, la rivista letteraria online, e alcune su Twitter. IMDb (The Internet Movie Database) assegna addirittura 8,5 stelle delle 10 totali, sulla scorta di quasi duecentomila opinioni degli utenti, un metascore di 75/100 ottenuto dal giudizio della stampa (da sottolineare che uno degli unici tre punteggi che vanno dal 50/100 in giù arriva dal Wall Street Journal), 403 recensioni. Tra queste ultime, si segnala quella di Joe Nocera sul NYT. Cos’è che rende tanto acclamata questa pellicola? Partiamo anzitutto da un dato puramente estetico: The Wolf of Wall Street è un trionfo orgiastico di fotografia (Rodrigo Prieto – I segreti di Brokeback Mountain, Babel), inquadrature e sceneggiatura (Terence Winter – I Soprano). Il film è una rappresentazione talmente esagerata, grottesca, carnascialesca della vera storia di Jordan Belfort (il Lupo, il predatore spregiudicatissimo e troppo sfrontato per reggere sulla lunga distanza) da suscitare, nei più, un coinvolgimento divertito e sensoriale. Si badi, Scorsese non carica leve sensuali, non cerca di catturare lo spettatore sul terreno dell’empatia. In quest’opera c’è persino qualcosa di Petronio, qualcosa che richiama alla mente e nella pancia il riso sguaiato di Trimalcione davanti ai compiaciuti commensali. Ma andiamo con ordine. Tanto per cominciare, Jordan Belfort è un personaggio in carne e ossa, perfettamente sano e ancora oggi molto attivo nel professare la sua vocazione ecumenica alla persuasione. E nel lucrarci sopra. Già questo conferisce un certo fascino al film, che può essere letto come una sorta di autofiction operante nel reale, tanto più seducente in quanto evocatrice del male incarnato. Belfort, classe 1962, è stato un aspirante broker. Nel 1987 va a lavorare per qualche mese presso una vecchia società quotata a Wall Street, la L.F. Rothschild. Il 19 ottobre di quell’anno, il famoso lunedì nero dei mercati azionari, uno tsunami finanziario mondiale travolge tutti gli investitori, decretando l’estinzione di molti di loro e di altrettanti operatori di borsa. Il futuro Lupo si ritrova senza lavoro ma con un’esperienza e un avvio ai riti iniziatici dell’arricchimento sufficienti per rifarsi dopo pochissimi anni. Gliene bastano poco più di due per fare soldi a palate con i cosiddetti penny stock (titoli legati a produzioni di valore troppo modesto per essere quotati in Borsa) sfruttando in modo fraudolento la fiducia di investitori senza grandi portafogli. Gli affari gli vanno talmente bene che nel 1990 fonda la Stratton Oakmont, società sempre attiva nel mercato dei penny stock, dunque al di fuori di Wall Street, ma questa volta orientata su investitori con portafogli decisamente più capienti. Nel 1997, dopo appena sette anni, Belfort viene incriminato per frode e vendita telefonica disonesta di titoli, messo in carcere e processato. Godrà di uno sconto di pena grazie alla collaborazione con il Dipartimento di Giustizia Federale degli Stati Uniti. La Stratton Oakmont cesserà di esistere. Nel mezzo di questa parabola, un divorzio, un secondo matrimonio con la bellissima modella Nadine Caridi, due figli da lei e poi il secondo divorzio; un’orgia continua di danaro, droga e festini; un tentativo maldestro di trafugare ingenti liquidità in una banca svizzera; la dissipazione di imbarcazioni, ville, beni di lusso. Ma Jordan Belfort non è il tipo d’uomo che si arrende. Mai. Oggi è di nuovo in piedi, ancora più sorridente e accattivante di prima. Tiene corsi sull’arte della persuasione, ne vende persino sul suo negozio online, per la modica cifra di quasi duemila dollari il cofanetto. Concede numerose interviste. Il cinema ha senza dubbio accresciuto il suo successo e la sua agiatezza. Se vogliamo cavillare, il protagonista del film di Scorsese non è affatto il Lupo di Wall Street, semmai è il Lupo ai Margini di Wall Street. Tuttavia la storia ha la forza del paradigma, ci guida nel mondo parallelo dell’assenza di scrupoli, della finanza che non ha minimamente a cuore le sorti del mondo, le nostre, casomai quelle di chi lucra sull’impegno dell’investitore il quale a sua volta cerca il ritorno dell’investimento. In questo senso, la sequenza in cui Matthew McConaughey nei panni di Mark Hanna, il socio anziano della L.F. Rothschild, spiega al giovane e inesperto Jordan, con eloquenza di gesto manuale, che il movimento dei soldi deve andare dal portafogli del cliente direttamente al suo, è il pilastro di tutta la vicenda, non solo del film ma soprattutto la nostra, quella di noi comuni mortali che per campare abbiamo bisogno dello sterco del demonio, per citare Lutero. Il Trimalcione dei penny stock è diverso dai patrizi Romani di Wall Street solo in quanto sfornito di albero genealogico, status di nobiltà e, forse, buongusto. Sotto tutti gli altri aspetti è identico a loro per avidità, istinto omicida, appetiti famelici. La sottolineatura fa rabbrividire ancor più pensando a quanto l’economia planetaria sia diventata di tipo finanziario, slegata cioè dal lavoro che produce beni di consumo. Un secondo perno del film è la sua pornografia. Su questo punto però dobbiamo chiarirci le idee. È fin troppo facile applicare l’appellativo di pornografico alle ripetute, insistenti, a tratti noiose sequenze di ammucchiate e donne nude. L’autentica pornografia del film sta in una seconda sequenza chiave. In essa Belfort sta gestendo una vendita al telefono in viva voce allo scopo di dimostrare al primissimo gruppo di soci-collaboratori qual è la tecnica infallibile che devono adottare. Mentre conduce la trattativa, mima un atto sessuale consumato quasi come fosse uno stupro, da tergo. Il raggiungimento dell’orgasmo coincide con la vendita di una partita di titoli più alta di quanto il cliente aveva accordato all’inizio. Ecco, lo stupro economico-finanziario del povero cristo è l’essenza di questa pornografia. Pornografico è il fare soldi come gesto meccanico di un organismo collettivo in preda al delirio orgiastico della ricchezza. Martin Scorsese, la sua troupe e tutto il suo cast (Leonardo DiCaprio, Jonah Hill – superbo – Margot Robbie, Kyle Chandler, Rob Reiner e gli altri che non vengono qui citati) sono mirabili nel rappresentare tutto questo. E c’è dell’altro. Ci sono il vuoto pneumatico della coscienza, il buco nero dell’etica, la perdita di significato e dell’epica dell’esistenza che gli anni Novanta hanno ricevuto in eredità dal decennio precedente. Per questi motivi The Wolf of Wall Street è un film che vale la pena di essere visto. Qualcuno forse gli rimprovererà una certa lungaggine, un procedere ozioso attraverso i dettagli della storia. Eppure anche questa ripetitività che amplifica il dilagante vuoto è il film e va presa con tutto il resto, un affresco iperrealista e allegorico della vacuità (o della vanità, che prima o poi se ne va in un falò). In fondo non sono così anche le nostre vite, sprofondate negli ultimi decenni dentro un pantano di paurosa, estetizzante, iperattiva inconsistenza? |
di Virginia Eleuteri Serpieri
Non mi stupisce che un film come The Wolf of Wall Street sia stato tanto acclamato dalla critica e dal pubblico. Lo spettatore, dopo essere stato immerso, nei suoi ben 180 minuti di durata, in una rutilante, vertiginosa, abbuffata d’immagini, si ritrova alla fine stordito, un po’ drogato, ma comunque un consumatore felice. Anche se qualcuno poi si chiede: cosa ho appena visto? Una storia reale? Una riflessione illuminante sul mondo della piccola e grande finanza? Io direi di no. Semmai la conferma, l’esaltazione dello spettacolo dei segni e delle immagini. Se le società moderne erano «organizzate intorno al concetto di produzione e consumo di beni e merci, le società postmoderne sono organizzate intorno al concetto di simulazione e di gioco delle immagini» (Jean Baudrillard). Il film narra la vita di un brillante broker americano, Jordan Belfort, che, grazie alle sue doti di leader e di venditore, riesce a crearsi un piccolo impero negli anni ’90. Dedito al vizio e agli eccessi, ma anche generoso benefattore verso amici e collaboratori, insegue la scalata sociale fino al fatale incontro con l’incorruttibile uomo di stato Patrick Denham.
Il racconto è esilarante, mirato a intrattenere lo spettatore con battute, gag comiche e spericolate avventure marittime, tanto da farci dubitare sulla verosimiglianza del film. Inoltre le immagini sembrano più volte ibridarsi con altre immagini estranee alla storia. Per esempio, la breve presentazione spot degli interni del lussuoso panfilo comprato da Jordan. Questo dovrebbe già svelare una certa complicità commerciale dell’autore dello spot di Dolce & Gabbana con quello che all’apparenza vorrebbe tenere a distanza “(..) e il suo sorriso in fondo riassume tutta la sua ambiguità: non è quello della distanza critica, è il sorriso della collusione” (JB).
Infatti, Scorsese sembra ormai ripetersi in un’operazione già collaudata nei suoi precedenti film, ma qui diabolicamente e, io aggiungerei disperatamente, consacrata. Jordan sembra dirci molto di più del lupo di Hollywood Martin Scorsese, che del lupo di Wall Street. Tutta la narrazione ruota intorno a un fuoco, l’euforica sensazione, migliore di qualunque droga, che ti regala il successo. La pellicola è piena di soggettive e semisoggettive di una platea inebetita ed estasiata dall’imbonitore Jordan Di Caprio. Una tra tutte, quasi commovente, la soggettiva, carrello in avanti, in slow motion, del protagonista che avanza tra i suoi giovani broker adoranti. Il consenso del pubblico è lo stupefacente più dolce e piacevole, quello a cui Jordan non sa proprio rinunciare fino all’autodistruzione.
Scorsese sembra condividere lo stesso dilemma del protagonista, se continuare a vendere una penna/film a un pubblico compiacente o fermare questo gioco perverso ed evitare così di schiantarsi. Quando si è drogati non si può che continuare a ingannare gli altri e se stessi, senza ripensamenti. E anche il cinema hollywoodiano può essere liquidato con un “It’s all a Fughesi”, o meglio “Fugazi” (come la nota band americana), Fucked Up Got Ambushed Zipped In, acronimo utilizzato dai soldati americani nella guerra del Vietnam, che significa “fottuto, preso in imboscata, chiuso dentro”, battuta ambigua utilizzata da Matthew McConaughey per descrivere la borsa.
Le ultime immagini sui volti dei corsisti, a cui l’abile Jordan Belfort insegna il mestiere e rivolge la domanda “vendimi questa penna”, sono illuminanti. La capacità è di colui che vende il nulla rendendo felice e inconsapevole chi compra. “Vendimi questa penna”, il mantra dei politici ambulanti e dei registi della nostra società per immagini dove, come afferma Hermann Broch, il kitsch sostituisce, alla categoria etica, la categoria estetica.
Qualcuno mi potrebbe obiettare che il cinema dell’ultimo Scorsese è oggi l’unico possibile e il mio è solo il disagio di chi non accetta un’arte, quella attuale, condannata a rappresentare solo se stessa. Ma io credo ancora nella capacità di alcuni autori contemporanei, come Herzog, Haneke o i Dardenne (solo per citarne alcuni), di catturare e restituirci poesia e illusione.
“L’arte è sempre stata simulacro, ma un simulacro che aveva la potenza dell’illusione. Ben altro è la nostra simulazione che vive solo della vertigine sentimentale dei modelli. L’arte era un simulacro drammatico in cui era in gioco l’illusione o la realtà del mondo. Quest’ultimo non è più che una protesi estetica.”(JB)
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