Perchè sì |
Perchè no |
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di Maddalena Marinelli Razionale e inafferrabile. L’albero simboleggia una contrapposizione di forze rivali, l’attaccamento alla terra e l’elevazione verso il cielo. Cammino di discesa e cammino di risalita, “la scala di Giacobbe”, dove c’è il continuo passaggio degli angeli, sale e scende anche la consapevolezza degli esseri umani. Lungo l’albero si elevano i pensieri e le preghiere di coloro che cercano L’Essere supremo. E’ a questo che più assomiglia The Tree of life, a una lunga preghiera, un dialogo con un Dio muto che risponde solo attraverso le immagini, tramite l’impassibile flusso della continua rigenerazione dove le nostre drammaturgie umane si susseguono senza risposte, senza un senso. Creature che sono alla ricerca di un contatto con l’imprevedibile creatore che come può dare può togliere. Oppure una (im)possibile visione di quello che percepiremo dopo la morte tra ricordi della nostra vita, trasmigrazioni della materia, affetti ritrovati, luoghi dove “il significato” ci sarà forse chiarito. Malick genera uno tsunami emotivo d’immagine e suono inseguendo l’avventura della vita: nascita, senso, conflitto, perdita tramite una densità di segni e suggestioni, partendo dal microcosmo di una famiglia della provincia americana degli anni cinquanta per riverberare nel macrocosmo, riattraversando la genesi dell’uomo. Un viaggio dell’eternauta. A differenza dei suoi precedenti film in cui (r)esiste pur sempre una vicenda/parabola ben precisa, narrata dall’immancabile voce fuori campo che ricorda l’antico rito del condividere e tramandare, in The tree of life la trama viene continuamente, volutamente cancellata diventando un flusso di frammenti ciclici tra passato, futuro e vita ultraterrena. Sembra il frammento/trailer infinito di una vicenda che ogni volta riparte in loop con qualche variazione aggiunta. Nel suo ossessivo ripetersi si espande ogni volta un po’ di più in un montaggio ipertrofico gestito da ben cinque montatori. Nello scandagliare l’interno si cerca ciò che fa pulsare l’esterno. E’ come se un vento atomico avesse risucchiato tutte le parole. L’inquadratura rimane quasi sempre ad altezza bambino, scrutando gli adulti dal basso verso l’alto o facendone vedere solo dei dettagli, come quando i piccoli intimoriti cercano di sfuggire lo sguardo accusatore dei grandi. Poi l’occhio si apre improvvisamente sull’infinito eremitaggio nello spazio dell’anima in un susseguirsi di epifanie organiche in un viaggio fantastico fino all’origine della vita, un nucleo oscuro che si apre alla moltitudine e alla mutazione del colore e della forma grazie agli effetti speciali di Douglas Trumbull, lo stesso di 2001: Odissea nello spazio, Emmanuel Lubezki alla fotografia, Alexandre Desplat alle musiche; la triade tecnica che ha permesso il connubio dialettico tra immagine e suono. I personaggi (padre, madre, figli) diventano i container che sigillano forze contrapposte tra innocenza, durezza, odio, amore, rabbia, perdono che si alternano nel percorso di crescita di Jack: “Papa’, mamma, voi due siete in lotta dentro di me e lo sarete sempre”. In Jack è possibile cogliere l’attimo preciso in cui inizia a germogliare il male sul tenero terreno dell’innocenza infantile che se troppe volte offeso, trascurato, incompreso, violato inizia a formare quella catena di disamore alla base di malesseri, disumanizzazioni o gesti distruttivi futuri. Ancora una volta Malick racchiude in questo suo quinto film una critica nei confronti dell’ipocrisia del sogno americano che di fatto si trasforma in incubo, in una grande frottola. Dietro la bianca facciata della famiglia felice, dell’ostentato moralismo, del benessere economico, dell’accoglienza si consuma invece odio, sfruttamento, individualismo, smania di supremazia. Non a caso, nel film, questo stato di decadenza e smarrimento interiore, esteticamente, prende le sembianze di due forze dello star system come Brad Pitt e Sean Penn per infrangere l’idea di icone americane rassicuranti. In un’atmosfera desolata e raggelata, alienamente, i due attori attraversano i luoghi simbolo dell’ America dai grandi spazi aperti, alla casetta col portico, agli interni ipermoderni dei grattacieli. Costruzioni di una finta vita. Il padre ha consumato la sua esistenza intrappolato in falsi miti, al figlio è ancora concessa la possibilità di comprendere se stesso e trovare la sua strada. Strani quei film attesi da tempo di registi che decidono di rimanere nell’ombra anche quando vincono la palma d’oro a Cannes. Forse una buona strategia per farsi notare di più e alimentare il mito, forse semplicemente la voglia di fare il proprio lavoro rimanendo fuori dall’esposizione mediatica. Queste opere sono sempre oggetti misteriosi e preziosi che lasciano lunghe scie di fascinazioni profetiche come è stato anche per Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. Il cinema ultimamente si affanna a raccontare un po’ troppo è ipernarrativo, ipersceneggiato, iperspiegato sempre alla famelica ricerca di storie. Terrence Malick un cineasta che vive senza dubbio in un’altra dimensione, che non è la nostra, ci consegna un’opera aperta in cui c’è ancora quello spazio necessario per lasciare il respiro alle nostre riflessioni contro la pratica, molto frequente, di quelle veloci consumazioni di amplessi cinematografici. Può il cinema ancora generare meraviglia? Di quel tipo che soddisfa la fame interiore, provocare un moto rivoluzionario, scuotere, innescare dentro di noi ordigni apocalittici per risvegliarci dai torpori della strategia dell’intrattenimento. Cercare in ogni frame l’immagine assoluta come Kubrick, Bergman, Hitchcock, Visconti, Scorsese, Eastwood, Malick può sembrare pretenzioso scivolando su un certo compiacimento estetizzante ma è (in)sana superbia d’artista. |
di Cristina Nistico’ Mai provato tanto fastidio davanti uno schermo, neanche davanti alla Nobildonna e il Duca di Rohmer. Erano anni che non uscivo così incattivita da un cinema! Un lavoro veramente antipatico, pretenzioso, una strana forma di proselitismo new age. Due ore e più di proiezione che non consiglierei al mio peggior nemico. Una tortura per chi è contrario alla religione come spiegazione di tutto e, soprattutto, alla finta spiritualità di moda tra i divi del jet set. Un film superficialmente spirituale. La sensazione è quella dell’ultimo Bill Viola, di cui ho scritto tempo fa, quel fastidioso incontro con la superiorità del guru all’americana che pretende di spiegare a noi comuni mortali il segreto della vita. Non una ricerca dunque ma un’affermazione impossibile. Certo, certo, siamo tutti d’accordo: le scene di famiglia sono girate magistralmente, con dei movimenti di camera “da Dio”, la luce in cui si immergono i protagonisti è impeccabile. Gli attori, che dire, tutti bravissimi, nessuno escluso. Ok. Tutto questo però si perde senza la speranza di un recupero: la poesia delle scene di famiglia è falcidiata da intermezzi che ricordano la più ignobile Tv religiosa. Avete presenti quei programmi incredibili che troviamo facilmente sulle reti private gestite da confraternite più o meno credibili? Quella fiammella poi al centro dello schermo mentre siamo costretti — bloccati dalla voglia di sapere dove vuole arrivare — ad ascoltare una specie di preghiera persistente, ridondante, per tutto il film. Ommioddio! Una nenia snervante che acceca, che logora ogni mente non annebbiata dalle nuove credenze new age. Con questo non voglio accusare chi crede in forze o personaggi mitici di cui si cibano le religioni, ma credo fermamente che in un lavoro di regia così impeccabile non ce ne fosse alcun bisogno. A mio parere, il “segreto della vita” di cui si legge in altri testi dedicati al film, si poteva facilmente percepire, trovare e capire dai racconti dei personaggi, dalle loro vite. Si poteva scovare tra le immagini, tra gli sguardi di amore sincero che si scambiavano i membri di una famiglia qualsiasi, che cercava, a volte non riuscendoci, certo, di volersi bene. Ma forse il regista non era così convinto di questo e ha avuto il bisogno di sottolineare questo aspetto pseudo-spirituale? E poi gli intermezzi di “superquark”, Dio mio no! E i due dinosauri in 3D, ma per favore! Durante le scene da documentario tipo “cazzinger” mi sono dovuta trattenere più volte dallo sbellicarmi dalle risate! Mi mancava tanto l’amico Crozza che spiegava il mistero della medusa che scappa da un esercito di pesci rossi cannibali! E come non pensare in quei momenti terribili a Vulvia “… ma solo su: Rieducational Channel!”. “Gli uomini passano ma ‘mbuto è per sempre!”. Per finire, poi, dopo quasi due ore di tortura audio-visiva, un po’ di pubblicità di prodotti di bellezza. Gente che vaga sulla spiaggia, tutti rigorosamente bellissimi, giovani e vecchi tutti immersi in una luce alla Garnier de Paris. Sì, proprio quella luce abbagliante che si usa per gli spot delle creme di bellezza antietà, quella luce tanto di moda che rende tutti più belli, buoni e bravi: “Perché io valgo!”, sottinteso: “Tu no! O comunque di meno”. E questo gran finale un po’ alla Bill Viola degli ultimi anni, il santone del video che ci vuole tutti redenti nel bel mondo new age inventato apposta per chi non si accontenta! Un mondo tra il cattolicesimo, il buddismo, l’induismo, e poi lo zen, scusate, dove lo mettete? Perché, secondo lui, secondo Bill, basta un anno in Giappone per sbomballarci e farsi bello con le sue prediche da illuminato. E Malick, forse pensa di essere un guru anche lui? Uno più, uno meno! Insomma, questo gran finale. Questo benedetto e attesissimo, finale, è santificato dalla preghierina conclusiva. E, dulcis in fundo, dall’entrata di una donna più soave delle altre, che non è di certo una qualsiasi: è la dea delle dee. Ma la mia critica è un’altra. Come mai in questo bel posto sulla spiaggia sono tutti così bianchi? E uno brutto, anzi, meno bello? E un disabile? Loro non ci vanno in Paradiso in questo film? Io di certo in quel Paradiso non sarei la benvenuta. E di questo me ne compiaccio. |
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