Il ciclismo è uno sport durissimo, forse più faticoso di qualunque altro sport: per gli allenamenti sfiancanti, per l’asprezza, la durata e la pericolosità delle gare, per la cura maniacale che si deve avere del proprio corpo e soprattutto della propria testa, perché è con quella che si vince. Le grandi corse a tappe (venti giorni consecutivi in cui si percorrono 200 km al giorno, montagne da scalare e da discendere, la pioggia il freddo, il caldo, il vento) sono delle vere e proprie sfide contro il buonsenso e la ragione; la testa e la determinazione sono tutto.
Chi non l’ha praticato (ma chi non è mai andato in bicicletta nella vita, almeno per un po’?) non lo comprende, lo trova noioso, la tappa è perfetta per assopirsi la domenica pomeriggio, dopo un pasto abbondante davanti alla televisione. Molti non capiscono le strategie, le tattiche, il ruolo della squadra, dei gregari e la cosiddetta “classe” dei campioni. Che classe ci può essere a pedalare come bestie un metro dopo l’altro per duecento chilometri?
Il film racconta la vicenda sportiva, umana e criminale di Lance Armstrong, vincitore per sette volte consecutive del Tour de France (la più dura e la più prestigiosa delle gare a tappe), organizzatore del più incredibile ed efficiente sistema di doping messo in atto nella storia del ciclismo, e della sua definitiva caduta ad opera della caparbia azione giornalistico investigativa del giornalista del Sunday Times, David Walsh.
La scena di apertura del film è molto bella: un solitario ciclista in cima ad una salita viene avvicinato da dietro, lentamente, dalla camera da presa; si comincia a percepire il respiro, il battito, la fatica. Gli siamo a ridosso, il ciclista diventa il corridore, ali di folla si fanno pressanti ai lati della strada, il rumore si mischia al sudore, lo sguardo è duro, determinato, stravolto, la salita sembra non dover terminare mai. Subito dopo una serie di filmati storici, cadute rovinose in volata, discese folli a 90 all’ora, coraggio inaudito. A chi piace la bicicletta vengono i brividi, bellissimo, le grandi sfide dopo 5000 km di martirio vengono vinte per pochi secondi, sugli ultimi scatti dell’ultima salita.
Il film è complesso. Potrebbe sembrare solo un ottimo film di genere, un film denuncia sulla scorta de Tutti gli uomini del presidente, con elementi thriller, pensiamo anche a The Pelikan brief e così via, e avrebbe un suo meritatissimo posto in quella schiera, ma il film ha qualcosa in più e questo qualcosa è il ciclismo, con la sua carica vitale e simbolica, con il suo naturale identificarsi con la parte “buona” della gente comune, quella che fatica appunto, che usa la bicicletta per andare a lavorare, a trovare le persone care, a vivere. Questo è il grande anonimo popolo che vive nel mezzo, nella sterminata provincia, nelle piccole e graziose cittadine mostrate dalla televisione durante le riprese della corsa, fuori dalla nevrosi assordante delle megalopoli. Ma è proprio così? Non proprio. Una profonda sottile corrente di inquietudine e di perversa ansia di affermazione percorre gli strati della folla e dei corridori, li anima di una volontà feroce di partecipare al banchetto delle vanità, alla rappresentazione grottesca della competizione sanguinosa, alla battaglia per la vita, proprio come gli alienati abitatori delle metropoli.
Più del calcio, della boxe, degli altri innumerevoli sport, il ciclismo vive la simbiosi del popolo che simboleggia, anzi il ciclismo è quel popolo, lo è fino in fondo. E qui comincia la parte più interessante del film perché si comincia ad intravedere l’altro volto del popolo di mezzo, quello che scopre la grettezza, l’avidità e mostra la frustrazione su cui galleggia l’intero postulato della sua esistenza.
Lance Armstrong è uno di loro, è avido, gretto, determinato e vuole vincere a qualsiasi costo, è ossessionato dalla vittoria e scopre che non può ottenerla se non costruendola con un “programma”. Allenamenti al limite dell’umano, potenziamenti a base di farmaci illeciti con un supporto medico formidabile, il coinvolgimento forzato di tutta la squadra, la U.S. Postal, cara all’immaginario del popolo americano di mezzo, Lance non esita a mettere in atto “il programma” senza alcun freno etico, con feroce determinazione. Ottiene così la prima importante vittoria, staccando nettamente gli avversari che l’anno prima lo avevano umiliato.
Siamo nella metà degli anni ’90, anni segnati dall’ottimismo Clintoniano, che a parte qualche avanzamento nel campo dei diritti civili, non si discosta molto dal reganismo- bushismo guerrafondaio e liberista, un campo fertile per le ambizioni di Lance, che proseguirà nell’America del dopo 11 settembre, l’America dei bombardamenti in Afganistan e in Iraq.
Ma sulle ambizioni sfrenate cala la pesante mannaia del destino, il cancro a un testicolo lo investe come un’automobile in corsa, è operato anche alla testa dove si erano annidate due metastasi maligne, non riesce neanche più a camminare. Ma lui “non molla” come aveva raccontato l’anno prima al giovane giornalista David Walsh, che rimase impressionato dalla sua determinazione e dalla sua presunzione. E ce la fa, sconfigge il tumore, ricomincia con esasperante caparbietà la sua scalata al cielo. Con gli stessi metodi.
Vince il suo primo Tour. L’America, la pancia dell’America, trova l’eroe che reiteratamente cerca (e produce, fosse anche solo di celluloide), il simbolo americano per eccellenza, il texano di umili origini che corre per sua madre, per se stesso, per l’America e il suo sogno. E lui è un corrotto e un corruttore, un criminale.
Ma non è forse corrotta tutta l’America? Non lo è la vecchia Europa? Non lo sanno forse tutti quelli che hanno a che fare con il ciclismo? Lo sanno tutti ma non vogliono saperlo. David Walsh si chiede, e lo chiede anche agli altri, come sia possibile che un atleta troppo muscoloso per essere un grimpeur, arrivato l’anno precedente 39° nella classica del Belgio, possa l’anno dopo vincerla con un distacco abissale sugli altri concorrenti. E come sia possibile vincere il Tour de France andando fortissimo a cronometro e fortissimo in salita, in genere la caratteristica delle due prove esclude performance di quel livello in entrambe, Lance in salita deve addirittura frenare!
E Lance continua, vince per 7 volte consecutive il Tour, impresa mai riuscita a nessun altro e tutti sanno che così non può essere, e tutti continuano a ubriacarsi del sogno che la loro stessa mente genera in un delirio di menzogna che origina proprio dalla frustrazione, dalla nevrosi collettiva e dall’ossessione del modesto, anonimo, comune popolo che abita il mondo di mezzo. Quello che va a lavorare in bicicletta, che la sera al telegiornale in quegli anni guarda i bombardamenti sull’Iraq di Saddam dopo che le prove dell’esistenza delle armi di distruzione di massa non sono state trovate. Ma tanto, come ebbe a dire il vicepresidente Cheney, non averle trovate non prova che non esistessero.
Tutto finisce come non poteva non finire, naturalmente; il buon giornalista, onore al merito a lui e alla sua testata, vince la sua battaglia e il diabolico Lance Armstrong, annichilito e privato dei suoi sette titoli fraudolenti, ammette davanti a Ophra Winfrey, guru del giornalismo televisivo americano, le sue colpe.
E così il cerchio si chiude, e se si chiude
il sipario con una fine giusta ed equa per il gran pubblico del mondo di mezzo, se ne aprirà presto un altro, più ricco più cruento e più spettacolare. The show must go on… si dice, niente di più vero in questo caso.
Ora, una lettura del film in qualche modo di superficie è stata data, è una lettura che ha riguardato gli aspetti sociologici e antropologici, ma è bene approfondire anche un altro aspetto di questa storia, un aspetto celato ma non eludibile. Forse è possibile leggere il film o meglio tutta la vicenda dal punto di vista della grandiosità dell’azione che è stata diretta e interpretata da Lance Armstrong, che in qualche modo si è offerto sull’altare sacrificale della rappresentazione mediatica della società americana, ma direi anche della intera società occidentale.
Partiamo dal presupposto che lui sia comunque un grande campione capace di lavorare più duramente di qualsiasi altro (c’è un dibattito aperto sulla necessità di far emergere le possibilità di un uso controllato dei farmaci adesso vietati in nome di una innocenza obiettivamente non credibile); Lance Armstrong non è solo il demoniaco artefice di un complotto di cui alla fine lui stesso è la sostanziale vittima, Armstrong è anche il consapevole regista e principale interprete, in quanto campione assoluto, di una disciplina che non ammette debolezze nel portare a compimento quella che in questo caso è una effettiva, potente, rappresentazione, direi anche artistica, di un’intera società.
So che il parallelismo è forzato e forse sgradito, ma grandi artisti del passato e anche contemporanei, quelli che hanno segnato un’epoca, cambiato le espressioni stilistiche, segnato un punto di svolta, anche critico e potenzialmente antagonista, non erano forse coloro che in virtù delle loro geniali capacità creative, della loro tempra particolare, della loro immensa ambizione, della loro capacità di manipolazione e di rapportarsi con il potere, portarono scompiglio in un mondo cristallizzato? Spesso hanno pagato uno scotto durissimo per questa loro azione con sacrificio personale, con il suicidio, la violenza dei comportamenti, l’abbandono, la solitudine. Non erano costoro menti e corpi alla ricerca di valori assoluti tesi alla perfezione prima ancora che al servizio dei loro committenti? Si obietterà che essi non agivano contro la legge ma in sua ossequienza, ma è proprio così? Ne dubitiamo e tralasciando di addentrarci in considerazioni sull’arte di deriva nicciana che allargherebbero troppo le riflessioni sull’accaduto specifico, ci limitiamo a pensare che la vicenda di Lance Armstrong affascina non perché un malfattore è stato scoperto e consegnato al suo destino ma perché qualche altra verità è stata svelata, dalle cime delle montagne.
Molto bella, si vede che conosci quello di cui parli, a tratti, anche per come la hai scritta, cioè molto bene, sembra di stare in una di quelle curve a cento all’ora, insomma dopo averti letto penso che andrò a vedere il film