Un gruppo di esseri umani, lo spazio che sono costretti a dividere, un elemento minaccioso di provenienza ignota che preclude qualsiasi via di fuga. La situazione base di The Mist, così come si trova all’interno del racconto di Stephen King, si presta come meccanismo perfetto per la costruzione tanto di una suspense “orrorifica” di implacabile e classica scansione, quanto di una riflessione articolata a più livelli sui comportamenti tenuti dai singoli individui all’interno della collettività e in un contesto spinto al limite della sopportabilità fisica e psicologica. Frank Darabont, che di King si è fatto il più acuto e sensibile interprete cinematografico a partire da Le ali della libertà, si appropria di un’altra creazione dello scrittore di Portland (La nebbia dalla raccolta Scheletri) ed esegue un ulteriore passo avanti nel suo personalissimo percorso tra il cinema americano di genere, l’horror in questo caso, contaminandolo con la consapevolezza delle implicazioni socio-politiche contenute nella storia e portate alla luce con uno stile in sospensione tra delirio allucinatorio e puntiglioso realismo. Il protagonista, colto nella sua apparente tranquillità domestica, è interpretato da quel Thomas Jane già piccola icona dei b-movies (The Punisher) e per lavoro fa l’illustratore di locandine per film (nella scena iniziale si intravede l’inquietante immagine del manifesto de La cosa di John Carpenter), finché l’idillio della sua bellissima casa sul lago con tanto di rimessa per le barche non viene minacciato da una tempesta notturna che sembra di origine naturale.
La bravura di Darabont nel costruire questo incipit, dove la prospettiva del disastro inizia ad abbattersi violenta sull’immagine sana e rassicurante della classica famiglia molto americana, inietta subito quel senso di stordimento rispetto alle coordinate di una realtà che pensiamo di conoscere, o almeno di cui ci viene data un’immagine che conosciamo, e i segni della distruzione e del caos che circondano quel microcosmo idilliaco e la nostra percezione di esso.
Chi conosce la scrittura di Stephen King sa perfettamente quale importanza abbia la parte puramente descrittiva di luoghi, paesaggi, contesti sociali e culturali e, successivamente, dei corpi e dei volti che popolano quei contesti; un’importanza che quando tutto verrà deformato dalla chiave del paradossale, del grottesco e dello spaventoso lascerà sprofondare il lettore/spettatore in uno sconforto ancora più grande.
La tensione progressiva di The Mist è resa mirabilmente nella trasposizione di Darabont, che segue lo stesso procedimento: la macchina da presa scende infatti dall’iniziale scenario di un paradiso terrestre minacciato fino al purgatorio ribollente di individui sull’orlo di una crescente crisi di nervi tra le file di un supermercato assaltato e saccheggiato, dove i segnali di distensione, come il sorriso scambiato tra un giovane soldato e una graziosa commessa, danno più l’impressione di un’innocenza destinata a perdersi nell’imminente, umanissimo inferno che si sta per spalancare.
E quando l’ignoto prenderà la forma di bestiali creature, modellate su una distorsione di insetti e animali preistorici, il corpo, anzi il volto della graziosa commessa verrà deturpato e sfigurato nella morte sotto gli occhi impotenti e disperati di quel soldatino con cui probabilmente aveva solo flirtato, come a dire che ci apprestiamo ad entrare in un mondo dove la possibilità dell’amore viene abortita sul nascere, dove non c’è tempo di affezionarsi ai personaggi, sviluppare un’immaginazione su di loro diversa da quella che non sia una morte brutale o una brutale lotta per la sopravvivenza.
Il meglio, narrativamente e stilisticamente parlando, esplode proprio quando dalla deturpazione del corpo Darabont sposta l’attenzione dello spettatore sul peggio dei comportamenti dei “sequestrati”, con l’isteria che da sotterranea diventa manifesta e alla fine prende il sopravvento, portandosi dietro un groviglio confuso di sentimenti negativi come l’egoismo, la frustrazione, la cupidigia, perfino il fanatismo religioso che ottenebra il raziocinio e la capacità di opporre una difesa per quanto blanda ai mostri che vengono dall’esterno. Il discorso su una comunità spaventata che diventa con il tempo sempre più gretta e chiusa in se stessa, tirando fuori una malsana aggressività contro una minaccia della quale non conoscono la realtà, evoca facilmente lo spettro di una nazione come gli Stati Uniti dove emozioni primordiali come la paura e l’irrazionalità vengono incanalate nel bieco processo di strumentalizzazione ad opera delle classi dirigenti e dei loro emissari, in questo caso l’esercito. Questa dimensione ideologica appare comunque un po’ semplicistica e forzata seppur perfettamente in linea con la rievocazione della fantascienza degli anni cinquanta come termometro delle angosce e delle nevrosi della società (basti pensare a L’invasione degli ultracorpi) e rischia di far impantanare le immagini in una logorrea di didascalica esplicazione dell’allegoria, mentre i momenti più suggestivi e avvincenti si concentrano dove viene espressa la precarietà del corpo in balia delle orribili creature carnivore e nella crescente incapacità degli adulti di salvaguardare la speranza sepolta sotto i corpi smembrati e dilaniati dei più giovani tra gli assediati del supermercato. L’immagine conclusiva di quel perfetto padre americano, di quelli che sanno trasformarsi in eroi al momento giusto, intrappolato dalla nebbia dentro la sua macchina e costretto a scegliere della vita o della morte del pugno di persone che ha deciso di salvare dalla cieca spietatezza dei mostri come dalla pazzia isterica degli altri uomini, è attraversata da un desolante nichilismo esistenziale più anarchico di ogni allusione politica.
Anche perché stavolta la lieta fine non è così scontata.