Il finale è in festoso crescendo, una corale immersione nel musical bollywoodiano. Ma è solo la coda di una crudele comedie incentrata sulla tv a premi. The Millionaire non è infatti una favola, ma l’incubo patinato di un mondo subumano dal quale non c’è realistica via di scampo. La meccanica raccontata nel film è sporca delle mani e dei ceffi che vi spalmano l’unico olio disponibile, il denaro e la manovalanza coatta (balordi e danzatrici). Chi tenta però di evadere dalle frenesie di questa vita, ed è il pubblico in poltrona, lo fa solo per entrare nello studio televisivo in cui spopola l’illusione che il contante possa essere moltiplicato tramite quella caricatura dell’intelligenza che è la puntata sul questionario a risposta multipla.
Nel corso della storia si allude sì anche alla salvezza, o al riscatto sociale: “Tu sei fortunato, io non mi sono salvato” dice all’eroe (Jamal) un suo ex compagno di strada ora trasformato, dal karma privo di scrupoli del suo sfruttatore (ma ex salvatore di entrambi), in storpio-mendicante; “Ora sono salva” annuncia l’amata (Latika) all’eroe prima dell’ultima peripezia. Ma il filo rosso della pellicola è la lotta per la sopravvivenza.
Un film di formazione, o meglio, di deformazione dell’umanità, costretta a calarsi in brodo di sterco per rimanere appesa alla speranza di riconoscimento in un mondo privo di inibizioni. Accade sin dalla prima impresa dei due picari, la gestione di una latrina di fortuna in aperto slum: il piccolo Jamal, lasciato lì dentro da suo fratello (Salim), vi si tuffa e immerge, pur di uscirne fuori e strappare un autografo al suo attore del cuore, dopo aver infilato e sgomitato, ricoperto di letame, la calca isterica degli altri fan. Tale scena, la processione della star tra i miserabili, è girata per far sor-ridere, ma l’indigesto get-in-to-get-out esemplifica l’unica via per accumulare punti e ascendere nell’era turbocapitalista di cui questo film ritrae in scene aeree e vibranti il paesaggio, le discariche e i risvolti. E infatti, si stampa un tenero cruccio sul volto del fratello battuto sul tempo, che però si rifà subito dopo, vendendo a tradimento l’autografo salvato dalla lordura, a ribadire la superiorità del soldo sul simbolo, o la sola simbolicità del soldo. E il cruccio cambia volto, cambia fratello.
Così è la r-esistenza dei due eroi, una corsa dietro, sopra e sotto il treno ringhiante del progresso economico indiano. Non c’è sviluppo, tra le diverse scene di vita attraversate ora insieme, ora uno contro l’altro (la lotta non risparmia la fraternità), e che, casualmente, finiscono per accumulare il tesoro di conoscenze cui attinge Jamal per dare le risposte esatte alle improbabili domande del conduttore del format televisivo più amato dalle plebi indiane e mondiali. Economia della conoscenza, appunto.
Chi è questo conduttore (Prem Kumar)? Un maestro di vita? Un potente mangiafuoco? Nella sua pingue mancanza di gusto (untuose la giacca e la barba) è l’araldo di una postumana dichiarazione dei diritti dello spettatore: chi non ha titoli per essere proprietario, può oggi, sospinto da folle eccitate all’idea dell’accumulazione virtuale, divenire milionario. Basta ridere, acclamare e puntare al gioco.
In quella finta roulette dell’intelligenza che è il Quiz, finiscono macinati persino il Diavolo e il buon Dio. Lo intuiamo in uno dei provvidi flashback: l’eroe è trascinato a rivivere i momenti tragici di uno scontro tra Indu e Musulmani, nel quale rimase uccisa anche sua madre. Ma dal traumatico ricordo riemerge, come per magia o per caso, la parola da offrire in pasto ad una delle insidiose domande del crudele imbonitore… Il nome “Rama”, che è poi, a consultare Wikipedia, l’avatar principale di Visnu, il liberatore dei soggiogati, l’incarnazione dell’uomo perfetto. Del conduttore non ci si può fidare, come del resto di nessun altro, scherano o parvenu, esponente di un mondo dove si è o sfruttati o ex-sfruttati passati dall’altro lato della ruota, o dello schermo. Ed è infatti facendo fare mezzo giro in più (o in meno) allo schermo del caso, che Jamal si tirerà fuori dalla trappola preparatagli da un imbonitore a corto di battute, infastidito di vedersi raggiungere nell’instabile ring dei nuovi ricchi. Il conduttore pennella su uno specchio del bagno, durante una pausa pubblicitaria, una soluzione al quesito cruciale, e lo scaltro Jamal la ribalta per ricavare così la vincente conclusione.
Tutto il resto è contorno, dall’ottusa e manesca polizia che non tollera l’ingresso nello stato di diritto proprietario di chi ha, senza alcuna paura, percorso le tappe della selvaggia accumulazione originaria (sospinto da spirito picaro e fiducia nell’amore), alla dolcezza riflessa in ognuna delle reincarnazioni della compagna amata dall’eroe.
Tutto è contorno, sospeso su quell’umano smarrimento che solo vedi tremare negli occhi di Jamal, pettinatura da impiegato, ampie orecchie, già arrivato a servire the tra le corsie affollate di un call center, e ora, chi sa, centrifugato da quella megalopoli in convulsa espansione (bellissime le inquadrature dei cantieri edili) che è divenuta Mumbai. Il finale abbraccio degli amanti ritrovati tra i lazzi del musical sembra però incipriare di colorita e chiassosa insicurezza la speranza nell’amore. Nell’ultima metamorfosi Latika, ora libera dagli aguzzini, appare più un’icona pubblicitaria, una ragazza ripulita, da salone di bellezza, che non un’ipotesi di umanità riscattata.
“Il filo rosso della pellicola è la lotta per la sopravvivenza”, però il vero spirito fondante del film è quello di prendere il filo, raggomitolarlo e farcelo vedere tutto intero all’inizio. A me questo Slumdog Millionaire non ha convinto del tutto, ma trovo interessante la contrapposizione del trionfo della struttura bottom-up del gioco a premi, in cui il futuro non è garantito per definizione e il senso scaturisce dalla negoziazione tra ciò che si ha e ciò che non è garantito che si avrà, con lo spirito top-down del racconto predeterminato, quindi con valenza agiografico-teleologica.
Proprio il condensato letterario – ma forse è una perversione posticcia – è ironicamente ricco. Tutti parlano di Dickens, ma questa parabola è dickensiana in modo cosmetico, mentre nell’animo è quantomai pre-romanzesca, si va quasi a collocare nei turbamenti medievali del passaggio tra le “estoires” e le “aventures” che poi risulterà – spostandosi dall’area franco-provenzale a quella iberica – nel genere picaresco che tu stesso citi. Ma qui si guarda indietro, si guarda a un tipo di narrazione che non trae il suo senso dalla peripezia come ostacolo che cambia la vita del personaggio, bensì piuttosto come (re)iterazione che ribadisce e prepara e sottolinea l’esito già scritto, per rafforzarne la carica morale.
Dickens, pur con tutto il suo sostrato di intenti moralizzanti vittoriani, mantiene lo sprito romanzesco del provvedere a far scontrare il suo personaggio con l’ostacolo, o con il Male, e a far scaturire senso da questo urto. Il film di Boyle alla fine invece sembra un curioso compendio della storia della letteratura che copre più o meno tutto il millennio, partendo da una religiosissima predeterminazione per poi includere i suoi smottamenti verso la peripezia (i Lais, i fabliaux), la novella, il genere picaresco, e finalmente la completa maturazione romanzesca (anche con l’insistito richiamo a Dumas, simbolo della distanza con l’Occidente in un film occidentale in visita a Bollywood, in cui i protagonisti non possono conoscere, per distanza culturale, i per noi banalissimi nomi dei moschettieri).
Le diverse scene di vita “casualmente” finiscono per accumulare il tesoro di conoscenza, in realtà non casualmente, e anzi questo dell’economia della conoscenza è invero il miraggio, un “trucco” irraggiungibile, perchè la prospettiva è rovesciata. Non c‘è potere economico della conoscenza, ma è un’esistenza che avviene – miracolo, mondi possibili – per vivere l’hic et nunc e mai più, e non essere null’altro, non avere altra conoscenza che non sia quella per cui si è al mondo.
Bell’articolo!
Tommaso