E’ stata tra le proiezioni più attese dei film in Concorso dell’edizione 2012 del Festival di Venezia: The Master in quanto ad aspettative aveva surclassato Malick (un suo nuovo film a distanza di solo un anno da The Tree of Life non è certo da Malick e questo ne sbiadisce un po’ l’aura). Ad alimentare le attese c’era stato il precedente film di Paul Thomas Anderson il quale ci aveva regalato uno dei più interessanti film dell’ultimo decennio: There Will Be Blood – Il petroliere. Con qualche rimando a Ron Hubbard (fondatore di Scientology), ma utilizzato solo come spunto e senza polemiche e diretti riferimenti (quelli semmai li montano ad arte i quotidianisti), The Master prosegue stilisticamente il percorso intrapreso dal regista di Magnolia a partire proprio da Il petroliere: rarefatte, estraniate e controllate (quasi maniacali) atmosfere che nel loro insieme rimandano ancora una volta a Kubrick e ancora una volta commentate dalle musiche di Jonny Greenwood dei Radiohead. Se nel suo precedente e monumentale film affrontava magnificamente quel rapporto tra ‘L’etica protestante e lo spirito del capitalismo’, (con un risultato spiazzante per capacità di analisi e sensazione di completezza, di aver incluso un definitivo ‘tutto’ nella somma delle sfumature), The Master, lo diciamo subito, manca di questo ampio respiro. Questo però non ne sminuisce il valore, ma più semplicemente restituisce la sensazione di una pellicola meno ambiziosa, pur se tecnicamente girato in uno splendido ed ‘obsoleto’ 70 millimetri che ha fatto annullare, per volere della produzione, e non senza polemiche, la seconda delle proiezioni stampa al Lido per inadeguatezza tecnica di una delle due sale.
E’ la famiglia (assente, presente, da trovare o ricostruire) l’ossessivo elemento ancora una volta presente nella cinematografia di Anderson, qui convogliata nello sbandato Freddie: un giovane reduce dalla Seconda Guerra Mondiale, senza prospettive e agganci affettivo – direzionali, alcolizzato e inaffidabile, il quale troverà nel Maestro Lancaster Dodd protezione e affetti. The Master è tutto concentrato su questo rapporto, amicale e ‘sentimentale’, tra maestro e allievo, in un psicologico attaccamento che non permette esistenze al di fuori di una dipendenza, ed essa è presente per ogni singola parte dei soggetti in gioco, indipendentemente dalla collocazione del potere all’interno della relazione. Potere che qui sembra perdere il suo valore in quanto i due protagonisti non giungono mai definitivamente ad essere vincitori o vinti, nonostante la loro sottile e pur titanica sfida al cambiamento. Questo aspetto è tutto affidato alle imponenti e magnifiche interpretazioni di Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix e quest’ultimo, attraverso uno studiatissimo condensato di gesti, espressioni e posture (siamo sulle stesse corde del Daniel Day-Lewis ne Il petroliere), riesce a raggrumare su di sé gli smarrimenti di un’intera epoca e nazione.
Un’opera estremamente personale The Master, lontana da specifici fattuali, pur se intrisa da rimandi politici e sociali, tutti relegati nelle sbalorditive capacità evocative che, da Il petroliere a questa parte, Anderson riesce a creare attraverso la capacità di costruire un suo caratteristico mondo filmico. Sono 135 minuti di Cinema in una sceneggiatura che, claustrofobicamente e senza vie di fuga, reitera un medesimo intreccio, pur riuscendo a suggerire sempre qualcos’altro attraverso spiragli che invisibilmente, senza forzature, riescono ad aprirsi in quella difficile e rara relazione di scambi tra schermo e spettatore.