Ritorno, dopo un brutto inciampo, e vi parlo di The Lobster.

E’ uno di quei film che non sai mai dire se è furbissimo ed intelligente oltre misura ― e sei tu che rimani interdetto, chiedendoti il senso di tutto quello che hai visto ― oppure è creato ad arte per frastornarti ma, quando passi al setaccio tutta quella massa di immagini, alla fine non ci rimane niente. Ed il senso va perduto con il colore che svanisce sullo schermo.

Un merito però il film ce l’ha, ed è indubbio: e consiste nella spremitura di meningi. Ah, quella sì che c’è! Anche perché il mondo parallelo che il racconto cinematografico crea, è agghiacciante ma plausibile. Non capisco come si possa descrivere il film usando ― anche solo di passaggio ― il termine “ironia” o “risata”, sebbene mitigate da apposizioni e aggettivi riduttivi.

Ma catapultiamoci subito in media res.

Il mondo irreale del regista greco Giorgio Lanthimos ― coadiuvato dal più robusto e visionario Efthimis Filippou ― si divide in buoni e cattivi: persone che vivono in coppia, e sono i buoni, e persone che vivono come single, i cattivi. Chi rimane solo per un qualche motivo, va in prigione direttamente senza passare dal via. E la prigione qui è più drammatica del Monopoli: hai l’”uscite gratis” solo se trovi un’altra persona con cui accoppiarti. Diversamente, scaduti i tuoi 45 giorni, vieni trasformato in una bestia a tuo piacimento. Realmente, vieni “trasformato”.

Dovendo scegliere per questa eventualità, la maggioranza delle persone solitarie che entrano nell’hotel-prigione-rieducazione dicono, a quanto pare: “un cane”. David (Colin Farrell) dice invece: “a Lobster”, senza incertezze. Una aragosta: vive cent’anni, ha il sangue blu come gli aristocratici. Ed è un mostro alieno, aggiungiamo noi, che allieta le nostre tavole.

David rimane single, e si presenta all’albergo in compagnia di un cane, suo fratello. Forse per reminiscenze pitagoriche. Qui la metempsicosi (o per meglio dire con Plotino, la metensomatosi) viene attuata sulla carne viva allo scadere del tempo. Tempo che può essere incrementato (vai a capire come gli è uscita fuori questa idea…) se gli ospiti dell’Hotel, andando a caccia con fucili caricati a narcotico, riescono a catturare i single fuggitivi che vivono in branco nella foresta, e per i quali vengono organizzate frequenti battute. Ogni single selvaggio catturato, si riceve un giorno di proroga.

David fa dapprima comunella con altri due single, ma poi ― quando è giunto agli sgoccioli del suo tempo ― si accoppia con la donna più dura del posto, una totalmente priva di sentimenti (una sorta di Penelope glaciale, per i cinefili è Angeliki Papoulia) fingendosi più feroce di lei: la bisbetica è quasi domata. Ma la finzione crolla un feroce mattino autunnale (omissis) e quindi David si disfa della tremenda consorte e si dà alla macchia coi single.

Presso i quali c’è però una sorta di rivoluzionaria francese (ovviamente francese, impersonata dalla bravissima Léa Seydoux) a fare da capo. E qui vigono altre regole, ancora più feroci ed assurde dell’Hotel da Transilvania. Insomma David scappa da Pilato per finire fra le braccia di Erode. E vive due follie di cui non era cosciente prima, quando era un sempliciotto felicemente accoppiato. Lasciatemi dire: come punto di partenza potrebbe anche funzionare. Per quanto assurde siano le regole che gli uomini si danno, e le strutture di potere sottostanti che le attuano, il cervello umano riesce a ipotizzare sempre una certa “plausibilità” del tutto.

Io stesso non so dirvi perché gli uomini che hanno condiviso con me il mondo per oltre mezzo secolo, facessero quello che vedevo fare loro. Perché fossero ed agissero nella maniera che per me è sempre risultata aliena, incomprensibile, spesso raccapricciante: come una aragosta a spasso fra gli uomini, o un insetto qualsiasi ― se mi chiamassi Kafka.

Ma gli umani lo fanno. Chi non mi legge per la prima volta, sa bene quello che intendo.

Ora, il film dovrebbe espandersi, e caricare di una qualche senso la situazione assurda, ma credibile, che è riuscito mirabilmente a mettere in piedi, come in un laboratorio teatrale.

E qui invece, e con mio grande rammarico, si ferma.

Naturalmente la storia va avanti, l’ossessione della “condivisione” come assurdo motivo per l’accoppiamento esplode sì, ma perde il suo pathos e, con esso, la sua plausibilità. Qui i nostri due autori credo che abbiano sentito quello sforzo creativo e di spremitura di meningi eccessivo per le loro stesse capacità, ed abbiano trovato la via più indolore per lasciare a metà la loro opera, una incompiuta tanto più disattesa quanto più ― in tutta la prima parte ― lo sforzo per creare un universo parallelo, una sorta di realtà virtuale introspettiva ―era stato convincente e promettente.

Lo so, non si fa filosofia con un film. Però non si può nemmeno fare pura estetica: quella lasciamola ai videoclip. Che forse è il mondo di provenienza degli autori. Quando ti incammini per attraversare le montagne, anche se non ti chiami Annibale, prima o poi il valico lo devi trovare. Altrimenti, cosa hai portato a fare gli elefanti con te? Muoiono tutti, elefanti e aragoste. Però lasciatemi concludere con un o zero-a-zero, e non per quieto vivere o per evitare altri inciampi. Come primo film di Yorgos Lanthimos e Efthimis Filippou ―e per di più in trasferta, in una Irlanda molto lontana dai loro climi ― si può anche accettare un “Nulla di fatto”, avendo visto un buon gioco a centro campo.

Ma con soli pareggi, non si vince un campionato. La chiave c’era, ed è nella prima scena del film, che passa e scivola via. Provatela a rivedere a fine film, riandate indietro con il pensiero (o stampatela nella memoria, indelebile): e poi ditemi se non poteva costituire un senso da espandere… Qualcosa su cui incamminarsi per cercare il valico.

3 Replies to “The lobster”

  1. Sono molto d’accordo con questa recensione. Il film mi è sembrato vuoto, una pura operazione estetica, figlio di un’epoca che si rispecchia, nel cinema, come nell’arte, in opere come queste che, piuttosto indagare le contraddizioni dolorose della propria e altrui esistenza, si accontentano di sterili provocazioni presentate con originale maestria.

  2. In realtà è il quarto lungometraggio del regista dopo Kinetta (2005); Kinodontas (2009); Alps (2011). Il mio preferito è Kinodontas.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.