L’attempata signora che, in evidente stato confusionale, fa la fila al minimarket per comprare una bottiglia di latte, e che più tardi in cucina prepara la colazione per il marito defunto da sette anni, è stata un tempo la donna più potente d’Inghilterra. La lady di ferro, definizione in voga all’epoca, una delle figure più controverse del panorama politico (non solo) inglese degli ultimi decenni. La donna responsabile, secondo una celebre battuta, della nascita e del successo della musica punk (e aggiungeremmo, di buona parte della filmografia di Ken Loach).
The Iron Lady, nelle sale italiane dalla scorsa settimana, racconta la vita di Margaret Roberts (più nota da sposata come Thatcher), primo ministro dal 1979 al 1990, prima donna a capo del governo britannico.
Il biopic si svolge secondo l’ormai consolidata prassi dei due piani narrativi paralleli, da una parte i giorni nostri (la signora Thatcher ha 86 anni ed è affetta da demenza senile), dall’altra la vita sin dalla gioventù, secondo un intreccio, per così dire, cronologico.
Il principale difetto del film sta forse, al netto della magnifica interpretazione di Maryl Streep (sembra già scontato l’Oscar), in uno sbilanciamento verso il primo aspetto. Una marcata indulgenza, un’evidente empatia verso l’anziana, allucinata figura del presente, inconsapevole della sua non-autosufficienza, cui fa da contraltare una non troppo approfondita analisi dell’operato e delle scelte politiche dell’agguerrita leader dei Tories.

Nel primo caso il tema sembra essere la decadenza fisica. L’anziana Margaret Thatcher, si diceva, continua a sentire la voce del suo Denis, non vuole che le domestiche mettano via i suoi vestiti perché “potrebbero ancora servirgli”, confonde l’attualità (gli attentati di Al Quaida alla metropolitana di Londra) col passato (le bombe dell’IRA al Grand Hotel di Brighton nel 1984, da cui uscì miracolosamente illesa), ha bisogno che la figlia le ricordi che non è più primo ministro.
Nel secondo caso, quello che viene rappresentato sullo schermo è il risaputo topos dell’eroe (in questo caso l’eroina) che supera i pregiudizi (in quanto donna, in quanto figlia di un droghiere) e le perplessità altrui, e ottiene sempre ciò che vuole. La giovane Margaret Roberts deve lottare prima per farsi strada a Oxford, poi per entrare in politica, in parlamento, per assumere la leadership del partito conservatore, per essere eletta premier, infine per guidare con mano ferma la nazione. Tutto quello che fa sembra essere visto in quest’ottica: una lotta, appunto, a cui viene a mancare il necessario approfondimento critico. Gli impietosi tagli allo stato sociale (alcune battute suonano drammaticamente attuali, così come attuale è l’atteggiamento euro-scettico), l’ostinazione con cui intraprende la guerra alle Falkland (al segretario di Stato americano dirà: “Ci stiamo comportando esattamente come voi dopo Pearl Harbour”), la durezza con cui si scaglia in parlamento contro l’opposizione: non c’è un’analisi, un ragionamento, magari un’originale interpretazione. Sono invece, questi, “solo” gli ostacoli sulla strada dell’eroe, che va avanti e pensa alla prossima sfida, come nelle tappe di una caccia al tesoro.

Il senso di undici anni di governo sembra riassunto in una sola frase, pronunciata dalla protagonista quando è all’apice della carriera: “La medicina è amara, ma per guarire bisogna prenderla”. D’altronde, predica sempre la signora, ciò che conta è fare cose importanti, non diventare importanti. Eppure, è difficile non immaginare, quale forza motrice (se non l’unica, la più importante) del personaggio, una buona dose di ambizione personale.
In questo quadro storico piuttosto approssimativo spicca la totale assenza della figura della Regina, che – per restare al recente cinema britannico – abbiamo invece visto relazionarsi continuamente col premier Tony Blair in occasione di altri eventi drammatici (The queen di S. Frears, sulla morte di lady Diana). Continuando, poi, nel gioco dei rimandi cinematografici, almeno una sequenza (quella dell’aspirante premier con gli strateghi della campagna elettorale) sembra richiamare esplicitamente Il discorso del re.

Sopperisce alle lacune del film la straordinaria – e già menzionata – Meryl Streep (Margaret da giovane è invece interpretata da Alexandra Roach), impeccabile sia come donna di polso che come anziana instabile, e talmente immedesimata nella parte da rendere le foto di scena a prima vista indistinguibili dalle immagini di repertorio. Il triangolo tutto al femminile si completa con la regista Phyllida Lloyd (Mamma mia!) e con la sceneggiatrice Abi Morgan (Shame).

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