Perchè sì

Perchè no

di Marino Galdiero

 Convinzione personale: Steven Soderbergh continua a ragionare in ogni suo film sui meccanismi della finzione, sugli allestimenti che rendono possibile il rilevarsi di una qualche verità, non affidandosi al potere assertivo dell’immagine, quanto mettendone in discussione l’illusoria carica persuasiva. Prendiamo ad esempio la scena finale con Mark Whitacre – interpretato da Matt Damon che per l’occasione ha preso una quindicina di chili in più, come se Soderbergh volesse indicare, con la trasformazione del corpo del divo-attore ingrassato, l’effetto transitorio della bellezza sullo schermo – dove per la prima volta nell’intero film possiamo vedere il protagonista senza il parrucchino davanti ad una videocamera e che, con la divisa da detenuto, chiede il “perdono” al presidente degli Stati Uniti per le sue truffe.

Noi spettatori lo ascoltiamo, pensiamo che questa volta Mark sia sincero, che la punizione che la commedia classica infierisce ai peccatori, abbia provocato un cambiamento in lui. Siamo rasserenati sull’esito positivo della vicenda, l’ordine è stato ristabilito. Ci parla in primo piano. Poi il campo si allarga per mostrare il protagonista ripreso in un set. Mark al termine del messaggio da inviare al presidente saluta l’agente dell’Fbi con cui ha collaborato che gli chiede: “Ma non erano nove i milioni di dollari sottratti alla società? Tu ora hai detto undici milioni di dollari!”. L’ex biochimico in carriera del gigante Adm (corporation agro-industriale Archer Daniels Midland) glissa, la butta in “caciara”, non riusciamo a capire quale delle due versione sia quella vera: nove o undici? Subito dopo lo vediamo uscire dal carcere, con la moglie fedele pronta ad abbracciarlo di nuovo, di seguito riceviamo informazioni sulla vita del protagonista. Mark, nonostante tutto quanto gli è accaduto – la collaborazione con gli agenti federali per svelare come l’Adm prendeva accordi con i concorrenti per stabilire i prezzi e le tangenti che s’intascava – è un manager di successo di un’altra impresa.

Insomma il finale della commedia ristabilisce l’assetto pre-esistente, senza che nessun emendamento morale sia possibile, quindi privandoci dell’illusione che un cambiamento sociale sia avvenuto. Una volta spente le luci della ribalta nel cuore di chi ha guardato il film non resta il pensiero gratificante tipico del genere: “Tutto bene quel che finisce bene”. Ma non è tanto che non si possa distinguer il vero dal falso o il bene dal male, come a volte può accadere nella vita o come con una certa leggerezza vanno ripetendo alcuni critici, quasi fosse un ipnotico mantra su ogni film dove le distinzioni diventano problematiche. Soderbergh credo scenda nel concreto e metta all’indice un sistema specifico, in quel mondo delle multinazionali, quello responsabile del crack finanziario internazionale, dei manager con gli stipendi d’oro, il bene e il male non hanno patria. Non è forse un caso che Mark viva sdoppiato avvicinandosi pericolosamente alla patologia: ci sono le proprie convinzioni morali espresse in una sorta di flusso di coscienza per cui i “buoni” saranno ricompensati e i “cattivi” andranno in carcere e lui, l’eroe senza macchia, sarà promosso a capo dell’azienda, e poi dall’altra la dura realtà degli affari.

I livelli di finzione a cui si sottopone Mark sono multipli, tanto da rendere difficile capire quale possa essere la sua identità. Ora qualcuno potrebbe pensare che tale condizione penda verso il dramma ed invece non è così. Al contrario, oltre all’ottima prova da attor comico di Damon, l’impianto della messa in scena spinge verso un’osservazione disincantata dei fatti, ci sono poi le musiche che fanno galleggiare in un vuoto irreale la vicenda del piccolo borghese alle prese con i meccanismi delle corporations. In un’epoca post-ideologica, come quella che stiamo vivendo, dove le logiche del mercato appaiono indiscutibili, The Informant! capovolge il luogo comune sulle magnifiche sorti progressive dell’economia globale. Sull’attualità del suo lavoro così Soderbergh: “Sembra molto attuale per quello che sta accadendo nell’economia americana in questo periodo, in realtà la storia è degli anni ’90. Le bugie del potere non mi sorprendono, ma ricordo che ci vogliono sempre due persone: chi le dice e chi ci crede!”

di Andrea Tosti

Soderbergh è un autore che si trova sempre un passo indietro rispetto alla contemporaneità. Come un intelligente ed intuitivo parassita, con l’istinto da ottimo comunicatore, si guarda intorno e camaleonticamente si adegua a mode e sperimentazioni. A differenza del piccolo rettile, però, il regista sfrutta queste proprie capacità mimetiche in direzione opposta: non per nascondersi, appunto, ma per farsi alfiere e promotore di scelte che naturalmente non gli appartengono e che cannibalizza a proprio uso e consumo. A differenza del pastiche tarantiniano, in cui la citazione, spesso riconoscibile, è sia una dichiarazione d’amore sia l’espressione esplicitata dell’impossibilità di distaccarsi da un passato memoriale e cinematografico davvero imprescindibile (è attraverso questo paradosso che il cinema di Tarantino si fa originale), Soderbergh sfrutta le sue conoscenze da cinèphile per la creazione di un cinema che è già vecchio nel momento stesso del suo concepimento. Cercare di riconoscere, infatti, nella filmografia del regista americano la persistenza di uno stile è un’operazione alquanto azzardata in quanto, anche volendo indagare sotterraneamente, si scoprirà ben presto che non vi è nulla da trovare. Non che questo significhi che il suo cinema non sia spesso efficace, o gradevole, ma l’unico valore aggiunto rispetto al materiale di cui si appropria è quello di renderlo maggiormente affascinante agli occhi di un grande pubblico che, attraverso il regista, si illude di poter assistere come spettatore attivo ad un cinema che storicamente o culturalmente non gli appartiene.

 Così come Segreti & Bugie si ispirava visivamente (nel senso di un recupero a posteriori) al cinema sperimentale europeo (operazione già tentata anche da Lars Von Trier con il visionario Europa), e Intrigo a Berlino ricalcava pedissequamente le orme del noir classico e nello specifico de Il terzo uomo, anche The Informant non esce da questi schemi, ricollegandosi, senza lode, sia al grande cinema d’inchiesta americano (Pakula e Lumet), che alle (non troppo) nuove tendenze del cinema statunitense. Sulla scia di un linguaggio minimale, lontano dagli eccessi stilistici degli ultimi anni, a cui si sono approcciati registi anche di diversissime estrazioni (non ultimo Gore Verbinski con The Weather Man), Soderbergh, zoppicando sulle tracce delle spy comedy dei fratelli Cohen, cerca, con una freddezza intellettuale che nuoce allo spirito in fondo buffonesco e assurdo del film, di introdurre il valore aggiunto del tema della menzogna.

Su un’architettura stilistica prettamente lineare il regista segue gli attori e la storia concedendosi raramente il lusso di lasciare un’impronta. Gli elementi però stridono, la sceneggiatura, che vorrebbe essere sottile, a tratti è spesso solo confusa, la regia manca di ritmo, e il pur bravo Matt Damon sembra non capire la differenza fra cambiare stile di recitazione ed ingrassare. Tutto il film sembra essere pervaso da un fastidioso atteggiamento da primo della classe. Le musiche usate in maniera contrappuntistica, la recitazione spesso volutamente esagerata (si guardi ad esempio la straniante reazione del procuratore generale e dei suoi assistenti quando vengono informati del fatto che il loro principale teste è un criminale), la tematica legata all’attualità della crisi economica americana. Tutti elementi che sembrano urlare: “Sono un regista radical, ho studiato alla perfezione i grandi maestri del passato e questo è il mio lavoro, cosciente ed innovativo”.

Per un buon film, però, non bastano certo le buone intenzioni.

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