Il giallo oro dei bei caratteri in lingua farsi dei titoli di testa, si staglia sui colori sbiaditi di una fotografia che viene rivelata per gradi, allargando dal particolare indefinito di un uomo barbuto, al ritratto in totale di un corteo di motociclisti. Il gruppo ha un atteggiamento vagamente arrogante, di sfida muscolare. C’è esibizione di forza, violenza in potenza. Sono tutti uomini. Lunghe le barbe e i capelli. L’abbigliamento, la patina della foto, l’ambiente urbano circostante suggeriscono una collocazione temporale a cavallo tra anni ’70 e ’80.
Eppure il senso profondo di questa immagine resta indecifrabile ai nostri occhi. Chi sono quelle persone? Cosa vogliono dimostrare? Trovandoci senza chiavi interpretative sufficienti, non millanteremo dimestichezza con la storia sociale iraniana, preferendo fare affidamento alle note del regista Rafi Pitts.
Scopriamo così che la foto è stata scattata dal fotogiornalista franco-iraniano Manoocher Deghati nel 1980 e raffigura i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione Islamica, durante i festeggiamenti del primo anniversario dell’insediamento di Khomeini. I Pasdaran: gli stessi che, trent’anni più tardi, attaccheranno le proteste pacifiche nelle piazze di Teheran. Niente di meno. E noi sprovveduti occidentali che avevamo pensato ai film sulle bande di selvaggi bikers, tutti sesso droga e rock.
Hunter rivela così subito la sua densa filigrana storico-politica. La generazione di Rafi Pitts con quell’immagine ci è cresciuta e ci fa i conti quotidianamente. E’ una generazione disillusa che ha creduto nella rivoluzione e che avverte oggi lo scollamento dalle istanze popolari di allora, le stesse che furono presupposto al rovesciamento dell’odioso regime repressivo dello Scià e alla nascita della repubblica islamica. Pitts, sceneggiatore-regista, dedica il film alla memoria di Bozorg Alavi, scrittore e politico iraniano costretto all’esilio già dopo il colpo di Stato del ’53 e mai più ritornato nel suo paese. Eppure Hunter, ispirato da un racconto di Alavi, non è un film di critica politica in senso stretto. Come tanto cinema iraniano della seconda nouvelle vague, Pitts lavora per sottintesi, innesta simbolismi e rimandi “sensibili” su un corpo narrativo dall’apparente inoffensiva linearità di una fabula soggettiva.
Un cinema che, strizzando l’occhio al neorealismo italiano, ha fatto di necessità virtù, eludendo le insidie della censura politico-religiosa con un mix ben congegnato di naturalismo e ambiguità allusiva e diventando negli anni una formidabile macchina da festival. D’altronde, se è vero che, come affermava il giovane Andreotti deplorando l’impegno artistico di De Sica, Rossellini e compagni, i panni sporchi si lavano in casa, il cinema iraniano più recente ha saputo stendere il suo bucato, facendo trapelare in controluce le contraddizioni di una società civile laica ed emancipata, ingabbiata nelle maglie del fanatismo religioso.
Contrariamente ai cliché rurali, al vago esotismo etnografico, cari a Kiarostami e Makhmalbaf, quello di Hunter è un paesaggio metropolitano, la grigia periferia di Teheran, non-luoghi fatti di svincoli autostradali, caseggiati popolari e ballardiane isole di cemento. Ed è proprio su un cavalcavia che Alì si apposta col suo fucile come un cecchino, mirando a casaccio sul flusso del traffico sottostante, finché capita sotto tiro una volante della polizia. Alì, interpretato abilmente dallo stesso regista, è Hunter – il cacciatore. La caccia nei boschi è il passatempo che lo porta lontano dalla giungla d’asfalto di Teheran, ma soprattutto lo distoglie dalla mortificazione del lavoro da guardiano notturno, vissuto come ingiusto prolungamento della condanna già scontata in carcere. Non è dato conoscere la natura del “crimine”, comune o politico, commesso da Alì, né il suo attuale orientamento ideologico, di là da una generica diffidenza per i rappresentanti dell’autorità. Alì è sposato con Sara. Assieme hanno una bambina. C’è complicità, stima, amore. Alì vorrebbe passare più tempo con la sua famiglia, ma ci sono quei maledetti turni di notte. La corda tesa dentro Alì si spezza quando, tornato a casa, scopre che moglie e figlia sono scomparse nel nulla. Nei gironi kafkiani dei commissariati Alì è costretto ad attese estenuanti nell’angoscioso presentimento di una verità troppo spaventosa da accettare.Fin qui il film sfiora la perfezione: la gravità esistenziale del protagonista; le ellissi stilizzate e senza parole dei brevi istanti di serenità famigliare; il senso profondo del paesaggio che diventa riflesso e parte attiva dei movimenti interiori dei personaggi; l’allusione costante a un non detto soffocante e oppressivo, che rimane da sfondo ai gesti del quotidiano. Tutto sembra funzionare con rigore e pulizia formale, a comporre il ritratto credibile e disperato di una vicenda umana privata, eppure emblematica e universale. Ma dal momento che il climax è raggiunto e tutta la tensione accumulata trova la sua momentanea via di sfogo nel sordo rimbombo del fucile, sembra quasi che a essere stata trafitta sia stata l’impalcatura narrativa stessa del film, che da quel momento in poi ci appare irrimediabilmente claudicante e danneggiata. Pitts si cimenta in un mutamento di paradigma che nelle intenzioni dovrebbe accompagnare sia lo stato di confusione mentale del protagonista che il progressivo disorientamento e scollamento del dato di realtà cui cadono vittime i personaggi. Alla sobrietà stilistica della fase metropolitana subentra lo scompiglio formale e l’estemporaneità nella lunga sequenza finale. Il thriller esistenziale si trasforma in tragicommedia dell’assurdo, in commedia dark-neorealista. Il film si fa improvvisamente verboso e didascalico, rivelando oltre tutto l’inadeguatezza interpretativa di attori non professionisti, messi alla prova da dialoghi serrati e caratterizzazioni complesse. Ma è soprattutto è la scrittura a farsi opaca e perdere risolutezza mentre il film si trascina fiaccamente fino al prevedibile finale.
Il tentativo di tenere assieme, mescolandoli, formalismo e neorealismo, è una dei tratti distintivi del cinema iraniano post-rivoluzionario. Peccato che in Hunter la giustapposizione appaia troppo irrigidita e artificiosa per reggere una materia drammatica così densa, a partire dal suo nucleo tematico. Perché Hunter è prima di tutto una meditazione sulla Vendetta – archetipo narrativo che nutre le storie del mondo, dalle antiche teogonie a Eschilo, da Shakespeare a Kill Bill – che dilapida il suo capitale espressivo, preferendo stemperare il dramma, o anche la farsa grottesca, nel macchiettismo di maniera.