Come Marina Abramovic quando apre le sue installazioni/ performance/martirio, Tilda Swinton appare sontuosa e dolente, con un voluminoso vestito rosso sul set in progress, del prologo di questo mediometraggio attraverso il quale Pedro Almodovar si confronta con un testo a lui profondamente affine per linguaggio e contenuto, ovvero La voce umana di Jean Cocteau; uno dei più famosi e rappresentati monologhi teatrali, nonostante in realtà sia messa in scena una conversazione telefonica tra una donna e l’uomo che la sta lasciando, dove si esplorano nella forza della parola e del suono , ora con lucidità e precisione , e ora con allucinata e vibrante poesia, alcuni aspetti ontologici (e nevrotici) di ogni relazione amorosa : la dipendenza, l’ossessione, la sindrome dell’abbandono.
Per risalire al precedente più illustre e sublime, almeno dal punto di vista cinematografico, dobbiamo rivolgerci al volto di Anna Magnani e allo sguardo di Roberto Rossellini nella loro collaborazione del 1948 , L’Amore, un audace dittico di episodi, uno dei quali era , appunto, l’adattamento del testo di Cocteau, che già cominciava ad emanciparsi dall’esperienza del neorealismo, dalla necessità di filmare la Storia in itinere, nel suo svolgersi, per restituirne ai posteri una testimonianza di indignazione politica, sociale ed esistenziale. Così, dopo il momento irripetibile ed eterno della morte di Pina sotto i mitra dei nazisti in Roma città aperta, la Magnani veniva trasfigurata ancora di più dal momento epocale della liberazione dal nazi-fascismo per raccontare la condizione umana nella sua veste più nuda e vulnerabile: abbandonata dal suo amante al telefono, proprio quell’oggetto che la grande pittrice polacca Tamara De Lempicka aveva raffigurato come simbolo dell’emancipazione femminile,la donna che poteva tenere in attesa il mondo con un cornetta in mano, riappropriandosi del tempo del pensiero e del verbo.
L’estrema modernità della versione Rossellini-Magnani stava nel fatto di aver intuito già il valore metalinguistico, e non solo narrativo e performativo, dell’opera di Cocteau , rielaborando degli elementi autobiografici della loro tumultuosa relazione (che da li a poco sarebbe finita in catastrofe per l’arrivo di Ingrid Bergman) ,esattamente come era già avvenuto per la corsa e la caduta di Pina dietro al carro dei tedeschi che portavano via il suo compagno partigiano: in quel caso Rossellini e lo sceneggiatore Sergio Amidei si erano ispirati alla visione in presa diretta della corsa e della caduta di Anna dietro al suo compagno dell’epoca, l’attore Massimo Serrato, che la stava lasciando dopo l’ennesima, violenta lite. Ma oltre a questo gioco di specchi e di rimandi tra realtà e rappresentazione, c’era un elemento che aveva a che fare con la natura implicita propria dell’atto del filmare, che ci riporta al presente della versione Almodovar-Swinton; La mdp, muovendosi nello spazio chiuso e circoscritto di una stanza, come se si trattasse di un palcoscenico appunto, avvicinandosi e allontanandosi dal volto tramutato in paesaggio iper-scrutabile della Magnani, che passa dalla dissimulazione dei suoi sentimenti all’esasperazione e all’apoteosi del dolore, del “ne con te ne senza di te”, crea nello spettatore partecipazione e contemporaneamente straniamento: sentiamo che è qualcosa che ci riguarda e ci tocca nel profondo, ci commuove e coinvolge nell’estrema comunicatività di un’attrice cosi terrena e mercuriale, ma c’è lo sguardo del regista a fermarci sulla soglia dell’identificazione e a creare quella distanza (che poi è ciò che di fatto alimenta il desiderio nel continuare a riempire il vuoto, spostandone sempre più in là l’orizzonte) dentro cui è possibile la riflessione sull’esperienza alla quale si sta assistendo e empaticamente partecipando.
Fassbinder parlerebbe di un cinema che fa “sentire e pensare” , e anche lui alcuni anni dopo avrebbe filmato una donna disperata nell’attesa di una chiamata telefonica da parte della persona amata ed ingrata ne La lacrime amare di Petra Von Kant, in una scena del film (ispirato all’omonima opera teatrale scritto da lui stesso) che forse risente dell’influenza della scrittura di Cocteau, anche se Petra viene ripresa nell’immobilità di un piano fisso in campo lungo e nella recitazione isterica e allucinata dell’attrice tedesca Margit Carstensen , contro il pathos più caldo e familiare dell’Anna M. che era venuta in prima. Nel 2021, sulle ceneri ancora calde del melodramma e delle declinazioni che ha avuto a seconda delle sensibilità e delle fasi che ha attraversato ( la magnificenza hollywoodiana e il revival nel cinema d’autore europeo , per esempio) quella passerella iniziale di Tilda, che muta il colore del suo vestito da cerimonia , tanto per chiarire che stiamo per vedere la celebrazione di un rito, da rosso passione a nero morte, è un po il grado zero della messa in scena di determinati codici stilistici e narrativi. Non c’è più la suggestione o l’allusione al fatto che quello sia un set perché non ci viene fatto vedere ne cosa c’è fuori , ne se ci sia un prima o un dopo come accadeva con Rossellini/Magnani,ma è manifesto fin da subito che l’appartamento della protagonista ( che peraltro fa anche l’attrice tanto per amplificare l’effetto imitation of life/specchio della vita) è costruito dentro un teatro di posa e che al di là di un prescritto , delimitato perimetro costruito dai luoghi, le parole e i gesti ,c’è il flusso della realtà che continua a scorrere. Almodovar ci dice che l’’effetto dell’abbandono produce una gabbia, una prigione dentro la quale ci rinchiudiamo e ci crogioliamo a tal punto da farla diventare una sorta di culla per poter mettere in scena l’ultimo stadio del ripiegamento e dell’annullamento del se, la regressione ad uno stato infantile di costante sonno (indotto però dall’assunzione di pillole in sostituzione della ninna nanna materna) e di impotenza, di attesa passiva degli avvenimenti. L’idea che ciò avvenga attraverso una telefonata stride con una contemporaneità dove tutto è stato sintetizzato dal potere transitorio della comunicazione virtuale tramite social, dov’è possibile chiudere , o aprire, una relazione con una chat, un post, l’invio di un messaggio a qualsiasi ora del giorno e della notte, accorciando e in alcuni casi annullando quella percezione del tempo ( non solo nostro, ma anche altrui se si parla di un noi) , necessaria per stare in una completezza e in una complessità (“pensare e sentire”).
Ma Tilda viene comunque da un altro tempo, perché in fondo è anche come ritrovare la faccia segnata e arresa, “gia condotta al verde” direbbe Petrarca, della spietata e vendicativa regina Isabella dell’ Edoardo II di Derek Jarman; e il cinema di Pedro ancora prima di lei,visto che il decor della casa/set è così vicino a quello dell’appartamento di Carmen Maura in Donne sull’orlo di una crisi di nervi, con tanto di (auto) citazione nella scena in cui la Swinton innaffia le piante (finte) sul balcone (finto) , proprio come faceva Pepa nel film del 1988 , solo che in quel caso c’era uno spettacolare affaccio (vero) su Madrid. Tutta la parte centrale poi , con il testo di Cocteau parzialmente riadattato , è come un lungo climax dove l’attrice si esibisce virtuosisticamente nel suo status di grande interprete, icona di una recitazione calda e fredda, passionale e nevrotica (Io sono l’amore, direbbe Luca Guadagnino); a un certo punto non siamo più neanche tanto sicuri che lei stia parlando effettivamente con qualcuno ( chissà chi si ricorda di Codice privato di Francesco Maselli, altra variazione sul tema, in cui Ornella Muti cercava di capire attraverso una serie di telefonate, forse reali forse immaginarie, la ragione per cui era stata lasciata dal suo compagno): ci interessa quello che dice sulla natura tossica di certi rapporti, di come si possa essere vittime passivo-aggressive e carnefici involontari, e ci strugge l’evocazione che fa della meraviglia e della bellezza ch ci sono (anche) state, per la somma degli attimi delle quali si è disposti ad accettare qualsiasi dinamica, a pagare ogni prezzo.
Almodovar riduce all’osso il suo postmoderno pop fin dai titoli di testa, costruiti come se fossero i meccanismi di un ingranaggio, e arriva a un momento fulminante, altissimo, magistrale in cui Tilda da fuco alla casa/set/feticcio e chiede al (presunto) uomo dall’altra parte dello smartphone di affacciarsi per vedere il fumo generato “dalle fiamme dell’amore che provo per te”. Jodorowsky lo definirebbe un atto psicomagico , in grado di liberare la donna della piece di Cocteau, esorcizzando la più convenzionale e languida simbologia della passione amorosa (bruciare/fuoco/fiamme), e ricondurla in uno spazio e in un tempo progressivi e non più avvitati su se stessi. “Troppo tardi” rispondeva Pepa/Carmen Maura all’amante che l’aveva lasciata per un’altra e ora, dopo che lei gli aveva salvato la vita rischiando la sua , chiedeva di parlarle; così Tilda si lascia alle spalle gli ultimi bagliori di un’inferno e si riappropria del potere che la De Lempicka aveva dato alle donne con quell’immagine del telefono: la possibilità di stabilire il come e il quando cominciare o terminare una storia che non è mai solo dell’altro.