[**1/2] – Sfogliando il catalogo dell’ultimo Korea Film Fest di Firenze (copia gentilmente distribuita dagli uffici della Fandango in occasione dell’anteprima stampa) ho scovato quattro o cinque titoli delle ultime due stagioni del cinema sudcoreano che, perlomeno a giudicare dalle sinossi, trovano nei propositi di vendetta, dei rispettivi protagonisti, i sentimenti da cui muovere le proprie storie. Rabbia, rivalsa, rancore, vendetta sono ormai clichè del cinema dell’estremo Oriente. Clichè che il cinema coreano si porta dietro fin dalle prime, sparute sortite sugli schermi europei e che, negli anni, ha confermato a suon di Trilogie (Mr. Vendetta, Old boy, Lady Vendetta di Park Chan-woo, in realtà una tetralogia se si considera anche l’episodio Cut girato per Three…extremes). Un cinema, sintetizzando, delle emozioni represse e poi liberate; a volte, pericolosamente, declinato sul versante ideologico del rozzo nazionalismo (vedi Brothers of War, 2003, film guerraiolo e guerrafondaio sullo scontro Nord-Sud del 1950 – ‘53); altre volte, più felicemente, declinato in senso sociologico e culturale a rappresentare l’attualità e la contemporaneità della lotta di classe.
È quest’ultimo il caso di The Housemaid, settimo film di Im Sang-soo, regista noto sui nostri schermi per il morboso La moglie dell’avvocato, distribuito nel lontano 2003, in piena korean wave. Passato, in sordina, come uno specializzato nell’exploitation dell’erotico, Im ha invece offerto le sue prove migliori in progetti dallo sguardo orizzontale, antropologico, preparati con mesi di immersioni sul campo, come Girls Night Out (1998), film sulla nuova gioventù sudcoreana che gli valse la curiosità, prima, e la fortuna critica, poi, nel circuito dei festival internazionali. In patria, Im è stato lo scomodo portavoce delle “donne che parlano esplicitamente di sesso” fino a quando, saltando un po’ sul treno (the moneytrain) in corsa, è diventato il coraggioso e controverso autore di The President’s Last Bang (2005), indecifrabile thriller-farsa-melodramma ricamato sul vero assassinio del dittatore coreano Park Chun-hee a opera del proprio capo scorta.
The Housemaid segna una continuità nell’opera di Im mentre, contemportaneamente, porta, nel filone del “vendicativo” sudcoreano, qualche interessante novità.
Proviamo un approccio schematico. Uno: le conferme stilistiche. Con The Housemaid torna nelle immagini di Im Sang-soo l’ammiccamento sessuale, la tensione vouyeristica, la suspense erotica. The Housemaid di Im Sang-soo è il remake di The Housemaid di Kim Ki-young, film coreano del 1960, popolarissimo in patria proprio per le sue audaci scene di approccio sessuale (così popolare che questo di Im Sang-soo è sicuramente il terzo, ma forse anche il quarto remake dell’originale!). Euny, la protagonista, è un corpo minuto e spossato, un corpo dei quartieri popolari di Seul che viene trapiantato, forzatamente e artificialmente, in un microcosmo lussuosamente isolato dal resto del mondo. Niente di paragonabile con la “housemaid” della nostra Malizia: Jeon Do-youn, l’attrice che interpreta Euny, non è “l’oggetto" Laura Antonelli, lontana anni luce dalle fattezze e dalla finta ingenuità della bambola di carne di Salvatore Samperi. Il ricchissimo villone che la accoglie come domestica è un sistema chiuso nel quale il Potere veste i panni di un marito-padrone, dal gusto e dalla sensibilità raffinatissimi. Un ricercato archetipo dell’esteta “vino rosso e musica classica” che rimanda fino all’icona del dandy passando per quella dell’ufficiale nazista. All’estremo opposto, la separazione, l’isolamento, l’impenetrabilità sono la manifestazione dell’ostentata esclusività della volgarissima aristocrazia postmoderna. Qui, regista e scenografi hanno colto perfettamente nel segno riuscendo a racchiudere un discorso sociale, economico, finanziaro, in pochissimi quadri d’insieme. E come nel messicano La Zona (Rodrigo Plà, 2007), anche per i super-ricchi di The Housemaid leggi e diritti sono ricalibrabili in base alle loro capricciose esigenze, in un sistema di valori tanto liquido quanto iniquo e ipocrita.
Due: le variazioni sul genere. Per valutare a pieno le novità degli istinti di vendetta rappresentati in The Housemaid dobbiamo considerare la genesi del soggetto. Negli anni sessanta, epoca d’oro del cinema mondiale, il The Housemaid di Kim Ki-young è stato per la Corea del Sud, in quanto a scandalo e carica erotica, l’equivalente della nostra Dolce vita. Seul come Roma. La dirompente sessualità della protagonista innescava, allora, una successione di catastrofi che ribaltavano i rapporti servo-padrone (proprio come ne Il servo di Joseph Losey, sorta di “housemaid” al maschile del 1963), mettendo a nudo gli istinti repressi sotto il perbenismo della famiglia, borghesissima, di un compositore, di un musicista. Una provocante presenza femminile che, come una serpe, rompe ogni equilibrio in seno ad un’ordinata famiglia tradizionalista del ceto progressista/intellettuale/dirigente. Lì, nel 1960, la “housemaid” era tratteggiata come una donna vamp, quasi una strega di Biancaneve, sensuale e sadica, portatrice di un rischio e di una paura secolare, quella della liberazione del desiderio sessuale, e che, infine, usciva, inevitabilmente, sconfitta. Emarginata, la domestica accettava passivamente il proprio destino. Qui, cinquantanni dopo, Im Sang-soo, il quale, in conferenza stampa, ha coraggiosamente dichiarato di “non stimare” il film originale, rende sicuramente più esplicite le scene di sesso, ma le novità più importanti sono nel sottotesto della rivolta dei domestici contro il Potere, della loro non-accettazione, della loro non-passività. Un vero conflitto di classe inscenato con la parte debole, ovvero la fedele domestica veterana e quella neofita coalizzate, che lotta con le uniche armi di cui dispongo, e delle quali da sempre si servono, i più deboli: i propri corpi. Vendicarsi come un kamikaze e, con questo gesto estremo, far pendere la bilancia dalla propria parte, senza possibilità di riscatto. Ecco l’innesto sorprendente e clamoroso di Im Sang-soo: creare una figura di martire vincente. La sequenza finale, la ricca famiglia ebete e isolata in un quadro allegorico, la moglie che canta al marito “happy birthday” come Marlyn Monroe con Kennedy, è un’altra azzeccata e folgorante immagine del film.
The Housemaid presenta piuttosto i limiti di tante altre grandi produzioni. Possiamo dire che le major coreane giocano a imitare le major americane così come i super ricchi coreani imitano i super ricchi americani. C’è, in diversi momenti del film, un surplus di stile che non porta nulla in aggiunta alla storia e alle immagini e che, anzi, allontana lo spettatore dallo schermo. A parte la quasi scontata enfatizzazione delle scene di sesso, nelle quali, comunque, in qualche modo, il messaggio sull’identificazione tra ricchezza e bellezza fisica arriva, c’è in The Housemaid
, evidente, il solito compromesso arte-mercato: si può dire tutto, perfino dell’attualità della lotta di classe, ma lo si può dire a patto (e solo a patto) che tutto diventi spettacolo.