Ci sono scrittori che diventano un punto di riferimento per i lettori, riescono a stabilire con loro un rapporto confidenziale, quasi di amicizia. Non mi riferisco a quegli scrittori seriali che costruiscono personaggi (spesso un investigatore privato, nel caso degli americani, o un commissario di polizia, per gli europei), sostanzialmente di evasione, mi riferisco in particolare ad autori come J.D. Salinger e David Foster Wallace.

Ce ne sono tanti altri naturalmente, che riescono a stabilire legami non superficiali, ma cos’è che avvicina questi autori ai lettori, tanto da creare con loro una corrente di affetto che ha portato moltissimi a provare un senso di smarrimento, di sincero dolore, una sensazione di perdita, quando sono scomparsi, nel caso di  Wallace prematuramente e in modo traumaticamente violento? La  risposta, in fondo, non è così’ ardua da trovare, anzi è proprio contenuta nel  film di cui vogliamo parlare. È  Wallace stesso a dire che quello che scrittore e lettori condividono è la solitudine. La solitudine che essi esprimono, che vivono e che raccontano è quella stessa dei loro lettori, i quali, tramite loro, prendono coscienza di questo stato collettivo ed è questo senso di appartenenza che rende la solitudine individuale più sopportabile. Apparentemente banale e semplificatorio, ma potentemente efficace.

La misantropia di Salinger sembra collocarsi all’opposto della apparente scanzonatezza di Wallace, anche se le loro originalità sembrano fondarsi su presupposti contrari, l’una, quella di Salinger, annegata nei ricordi e l’altra, di Wallace, tesa a liberarsi dalla schiavitù del presente, dal frastuono nel quale è immerso e del quale, come se fosse un ricettore potentissimo, riesce a cogliere le più disparate manifestazioni con una maniacalità e una lucidità assoluti, quasi sconcertanti.

La loro ricerca, per certi versi disperata, sembra volta a stabilire un contatto con la solitudine e la sofferenza di una umanità dispersa, e sembra fondarsi e fondersi in una singolare un’etica comune, isolata ed adagiata nei bianchi paesaggi americani del midwest.

Sembra quasi che vogliano farsi carico, novelli cristi, della sofferenza di tutta quest’umanità e portarla alla redenzione, partendo dalle loro particolari sofferenze, aiutati dal loro talento, dalla loro genialità e dalla loro poesia.

Confesso che non ho letto “Infinite jest” (da indagini personali mi risulta comunque che in europa l’abbia letto poca gente, magari è lì a casa che pascola tra comodini e tavolini, ma che abbia assolto alla sua funzione primaria, questo non sembra), ho letto  “la ragazza dai capelli strani” e altri racconti, senza che mi abbiano lasciato un segno particolare, sono rimasto invece colpitissimo dalla visione del film.

È tratto dai materiali dell’intervista che David Foster Wallace, allora trentaquattrenne, dopo l’uscita di “Infinite Jest”, concesse a David Lipsky, anche lui molto giovane, giornalista da poco assunto dalla rivista musicale rock “Rolling Stones” nell’inverno del 1996, dopo l’uscita di “Infinite Jest”.

David F.W. era letteralmente esploso nel mondo letterario americano, si parlava di lui come lo scrittore “tanto atteso”, la “rock star” della letteratura americana e via dicendo, in un panorama immerso nel  postmodernismo, che pur esprimendo vette di purezza e bellezza assolute, e pensiamo innanzitutto a De Lillo,  Pynchon e altri, sembrava esaurire nelle sue stesse ragioni d’essere la sua vitalità e la sua capacità di attrazione . Dunque il cosmo letterario americano era in attesa del nuovo messia, che si è materializzato nelle spoglie di David Foster Wallace.

David Lipsky, scrittore anche lui, un po’ invidioso di questo successo, dopo aver letto il libro, e rimanendone folgorato, decide di intervistarlo. Ottiene l’intervista  che si svolgerà nel corso di un viaggio per promuovere il libro che durerà cinque interi giorni, nella macchina presa a nolo da Lipsky,  nel candido paesaggio periurbano americano del nord, attraversando anonime cittadine e giganteschi centri commerciali nel bel mezzo del  nulla.

“The Mall of America”,  tavole calde e motel tutti uguali, all’interno della macchina, mangiando junk food, bevendo grosse sodas e caffè fumanti… chiaccherando leggermene, alternando  battute a improvvisi  momenti  di grande  intensità. Perché il viaggio è l’andare oltre, la riproposizione dei miti e la dilatazione del tempo, il viaggio è  l’America.   Immenso continente della libertà e della solitudine individuali. E a ben pensare, forse, è questa natura solitaria a generare questi consumistici non-luoghi collettivi, infiniti nella loro ripetitività, che mantengono sempre un legame con l’archetipo dell’infanzia dell’umanità, con il gioco, e alla fine con la morte, parte del gioco anch’essa, cui non si cerca di sfuggire in una sorta di preservazione innaturale, ma nella quale ci si immerge, quasi con spensieratezza. Affiora alla mente il recente Nebraska di Alexander Payne .

Diciamo subito che Lipsky non pubblicò l’intervista, ma che scrisse in seguito il libro “Come diventare se stessi”, dopo il suicidio di Wallace nel 2008,  e che da questo libro si sono mossi lo sceneggiatore Donald Margulies e il regista James Ponsold.   Lipsky dunque non pubblica “l’intervista della sua vita”, qualcosa lo ha scosso. È come se avesse presagito, nella strabiliante energia cinetica di Wallace,  nella sua mente geniale, un fondo di predestinato sacrificio e di consapevole accettazione del suo gesto  liberatorio.

In un certo senso Wallace sembra già sapere che la sua vita è destinata a spegnersi per dare spazio alla  possibilità di salvezza delle moltitudini delle quali ha ri-acceso la scintilla vitale della conoscenza, e dunque non può tradirle con una prosecuzione sterile del rumoroso vuoto che ha descritto, e non può tradire se stesso. Paradossalmente nel momento dell’abbandono si attua un comportamento etico, non dissimile da quello di Salinger, solo meno egoista.

Lo spirito americano si rappresenta veramente in modo autentico attraverso la metafora materiale del viaggio, che si trasmette e si sedimenta nell’immaginario planetario, attraverso libri e miti, musica, natura vasta, echi lontani, canti dei pellerossa, le litanie blues dei neri, attraverso gli esodi degli affamati e le scorribande dei vagabondi  e Wallace è, o vuole essere, uno di loro, anzi vuole essere tutti loro.

In realtà Wallace non è affatto uno di loro, nonostante il suo aspetto grunge e il suo fisico potente,  questa identificazione è solo letteraria, almeno fino ad un certo punto, almeno fino a quando la morte non ricompone il quadro frantumato delle esistenze individuali e ne restituisce l’unitarietà. È  figlio di docenti universitari, è andato al college e poi all’università, è imbevuto di cultura e di pensiero, ha scritto su riviste importanti,  pubblicato libri, ha scritto il monumentale e acclamato “Infinite Jest”, è dentro la letteratura fino al collo, insegna scrittura creativa in un piccolo  college ed ha una mente geniale, in grado di assorbire qualsiasi cosa e di rielaborarla vorticosamente,  sembra proprio, e forse lo è, il personaggio di un film, o di un libro.

Si è isolato, nel momento di maggior successo, in una normalissima casa americana di una anonima cittadina ed esercita il suo lavoro in modo  apparentemente  umile.  Ha un cane, anzi due (uno si è aggiunto spontaneamente di sua iniziativa) e non ha la televisione, ma non la possiede non per una scelta alternativa, ma perché ne è stato un profondo amante tossico, perché dopo averla vissuta visceralmente e narrata, non vuole anticipare la fine tragica che la televisione sub-liminalmente  profetizza.

Si immerge, insomma, nella normalità più assoluta, isolata, cosmica, dell’America vasta e indistinguibile, alla ricerca disperata dell’antioriginalità, ed è qui che lo vuole stanare Lipsick, che sostanzialmente non crede alla sua purezza e alla semplicità delle sue scelte, e in un certo senso con ragione.

Comincia il loro viaggio-scontro-confronto delle menti,  che appaiono nude ed esposte in un reciproco gioco che inizialmente sembra trovare dei registri incerti tra “ammirazione e mancanza di fiducia”,  ma che rivela attrazione e qualche tenero  gesto di infantile dolcezza. Sono come due bambini, ma uno è un bambino geniale, speciale, come Seymour Glass ne “Il giorno ideale per i pescibanana” di J.D. Salinger.

Alla fine si lasciano come se avessero litigato, da estranei, senza ricercarsi, e l’unico contatto è l’invio per posta, direi simbolico, da parte di Wallace, di una scarpa dimenticata da Lipsky.  Anche qui un gesto di apparente antioriginalità, ma che lascia Lipsky in uno stato emozionale di nostalgia quasi straziante.

La scena finale, bellissima, mostra Wallace che balla in una anonima, squallida sala da ballo, il suo sorriso è luminoso, la sua felicità è anch’essa straziante.

Il film, nella sua essenzialità è meraviglioso e rivelatore, la musica fluisce con armoniosa e tagliente bellezza  e non ci abbandona la sensazione di aver assistito ad una preziosa rappresentazione di due attori che veramente sembrano aver vissuto in modo profondo e compenetrato i personaggi che interpretano.

 

 

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