Il cinema americano, un certo cinema americano, ha da sempre posto parecchi problemi a chi cerca di decifrarne le intenzioni e interpretarne i contenuti. Né di destra, né di sinistra, si è spesso detto, né autoriale (nel senso europeo del termine), né totalmente popolare. Ma un po' di tutto questo infine si. E quello che esce fuori, da istanze e urgenze non troppo categorizzate, è spesso qualcosa di molto bello e interessante, un cinema che ci parla di contraddizioni e ambiguità, categorie sfuggenti, in cui inscrivere parabole di ascesa e caduta, di passato che determina il presente, di individui soli a galleggiare in una collettività “liquida", per dirla con Zygmunt Bauman. Ed è proprio in questo spazio aperto che il cinema americano ci ha raccontanto con credibilità e aderenza di come i sogni possano facilmente tramutarsi in fallimenti, le ambizioni diventare nevrosi, le colpe essere gli unici stimoli che producono movimento, Hollywood e le sue aberranti finzioni divenire l'unica realtà. Il genere in cui tutto questo ha trovato una forma ed un equilibrio mirabile è probabilmente il “noir”. In questo schema complesso, infatti, tra le pieghe di colpi di scena e disvelamenti avvolti in una coltre di suspence calibrata al millimetro, diversi grandi registi son riusciti a scuotere le nostre paure, i desideri, le frustrazioni, cogliendo efficacemente, nei casi migliori, la gloria e il marcio che appartiene a tante storie di uomini. Ed ecco Welles, Huston, Coppola, Altman e Kubrick, tanto per dirne alcuni. Un noir costruito con grande cura, in cui atmosfere torbide e temi cari al genere vengono inserite in una struttura formale robusta e affascinante, è anche l'ultimo film di De Palma, fisico mancato e regista per vocazione. Raccontare la trama di The Black Dahlia è impresa ardua, tanti sono gli intrecci e i depistamenti che si rincorrono in un labirinto di luci e ombre, e con ogni probabilità andrebbe a tutto scapito di una suspence raffinata, che è parte fondamentale del divertimento e del coinvolgimento di chi guarda. Sembrerebbe proprio che il tecnico De Palma abbia scelto questo meccanismo narrativo per parlare meglio alle nostre tensioni e a quel costante bisogno di liberazione che sottiene a tante e varie azioni. Spiazzare lo spettatore, non dargli quello che si aspetta, introdurlo infine nell'ambiguità del mistero e nelle verità credute delle apparenze. E le apparenze, che nascondono e intorbidiscono, ci appaiono in questo caso come scatole cinesi che sembrano non aver mai fine. Detto questo, proviamo a raccontarla, la trama.
Nella Los Angeles del dopoguerra, due detective, Bucky e Lee, ex pugili soprannominati "fuoco e ghiaccio" (dostoevskijanamente, si direbbe..), lavorano insieme ad un caso di omicidio: una giovane aspirante attrice, La Dalia Nera, è stata trovata morta, e orrendamente sfigurata, in un prato. Bucky inizia a frequentare assiduamente tanto Madeleine, ambigua figlia di un noto costruttore, amica di Betty, questo il vero nome della Dalia, quanto Lee e la sua affascinante fidanzata Kay. Le storie quindi si intrecciano e si complicano svelando loschi giri di corruzione che non risparmiano neanche il dipartimento di polizia. In questo composito incedere, i protagonisti agiscono in preda ad ossessioni sempre più invadenti, siano esse fantasmi del passato (i trascorsi poco puliti di Lee; la sua sorellina uccisa quando era appena un’adolescente) o ambiguità e scorciatoie, morali anzitutto, del presente (l’incontro truccato di Boxe che permette a Bucky di pagare la clinica al padre malato, salvo poi accorgersi di averlo, in tal modo, definitivamente perduto; l’interesse morboso per la ragazza morta che lo spinge, irresistibilmente, a conoscere la viva Madeleine; la sostituzione di Bucky a Lee nel cuore di tenebra di Kay). E’ una specie di oscura processione verso la fine, nella quale i finti eroi vanno incontro agli eventi a testa bassa, sotto un cielo madido di muffe gialle, scansando e nascondendo, più o meno consapevolmente, la complessità degli eventi, della realtà (in questo senso è davvero eccezionale il piano sequenza che spostandosi da un omicidio all’altro, dal basso verso l’alto e poi di nuovo verso il basso, mostra gli effetti collaterali di una visione monodica degli eventi). E giù giù fino al finto happy end, che sta lì a dirci come una riconciliazione apparente possa nascondere in realtà una caduta irreversibile. Nessuno si salva, e pur credendo forse il contrario (la parabola discendente di Bucky, che arriva addirittura ad uccidere per ottenere vendetta e, soprattutto, per distruggere in un sol colpo l’ossessione e l’amore, trovando infine la finta salvezza nelle braccia di un’altra donna perduta). Nessuno, si potrebbe dire, sale sopra la gru mobile che il regista aziona sulla scena per allargare il campo, distanziare lo sguardo, tutti ne rimangono indistamente schiacciati. E schiacciante è anche il peso di Hollywood, industria senza scrupoli che crea case, vite, sostenute da fondamenta marce; che violenta la fragilità e l’ingenuità di una ragazza di provincia, quella Betty, splendidamente ripresa in un b/n struggente e rivelatorio, che assunta a Dalia Nera (pianta con bei fiori ma provvista di una radice breve e ingrossata per accumulo di materiali di riserva) diverrà l’oggetto del desiderio del contraddittorio Bucky; che determina le apparenze dei tanti aspiranti attori che vivono secondo copioni già scritti per loro da chi dirige la gru. De Palma è un romantico appassionato del lato umano più oscuro, dell’irrazionale che deflagra spesso da un tradimento della norma, dell’ordine cui si era affidata la propria sopravvivenza, ed è, in un certo modo, un fisico del linguaggio, che quando tiene a bada la sua mano virtuosa sa esser splendido e rigoroso.[ottobre 2006]