La prima domanda che preme durante la visione di questo sconvolgente documentario è: possiamo considerare bella un’opera che mostra con sfacciata e apparente disinvoltura degli assassini criminali indonesiani che, come due star del cinema, raccontano con aria di sfida davanti alla macchina da presa l’eccidio per loro mano di centinaia di migliaia di oppositori del regime indonesiano tra il 1965 e il 1966? Possiamo definirci equanimi mentre Anwar Congo e Herman Koto ci mostrano con dovizia di particolari come torturavano, strangolavano, impalavano, massacravano, nel silenzio interessato dell’Occidente i “comunisti”, ovvero quanti si opponevano alla dittatura di Suharto? Uomini, donne, bambini, intellettuali, insegnanti, imprenditori o semplici contadini. Un milione in un anno. Tremila persone al giorno.
Se si ha il coraggio di arrivare fino in fondo e non si cede di fronte al proprio io moralista censore, sì.
The Act of Killing diretto da Joshua Oppenheimer, prodotto da Werner Herzog, premio come miglior documentario all’European Film Award 2013, premio della giuria ecumenica al Festival di Berlino 2013, nella sezione Panorama Dokumente, con stile secco e adamantino è un ascensore per l’inferno, un viaggio senza ritorno nel magma indistinto delle pulsioni umane, quelle più ferine e brutali che a stento riusciamo a confessare a noi stessi, e che spingono al di là del bene e del male in una dimensione spazio temporale che viene preannunciata dalle prime immagini.
Il film si apre con una scena surreale in cui sei donne quasi metafisiche escono da un gigantesco rottame pesce-barca ormeggiato sulla spiaggia. Nelle immagini successive una voce fuori campo dà istruzioni su espressioni di pace e gioia che devono assumere gli attori immersi in una paesaggio “paradisiaco”, dove spiccano in abiti angelici i sorridenti e serafici Anwar Congo e Herman Koto, beatificati salvatori della patria. La scena dopo, macchina da presa fissa su un imponente centro commerciale, segno di sviluppo e benessere, mostra in sovrimpressione il manifesto metodologico di Oppenheim: è chiesto ai due assassini di “ricreare” le scene dei loro omicidi nel modo che preferivano per capirne il motivo. Il documentario riprende il “film parallelo”, quello di cui si mostra all’inizio la prima pantomima, che non è altro che il paradossale, folle e perverso ribaltamento della realtà che Anwar Congo e Herman Koto hanno compiuto per sciacquarsi il cervello e non impazzire. The Act of Killing si muove quindi su tre piani narrativi: quello della realtà contemporanea dei due protagonisti, quello della realtà immaginifica del film di finzione che costruiscono strada facendo, quello della realtà del documentario. Il risultato estetico è di indigesta ma notevole efficacia, soprattutto quando i tre livelli si mescolano a mostrare i due aguzzini che, nel rappresentare i loro assassinii, si travestono a turno da carnefici e da vittime, inducendo nello spettatore una forma di spaesamento mista all’orrore dei racconti. È come se il documentario, così muovendosi, ci volesse trascinare in una sorta di brodo primordiale subumano in cui nessun elemento è distinguibile dall’altro, in una sorta di livello zero in cui imperano l’istinto di sopravvivenza, la forza aggressiva e l’istinto gregario. Tutto ciò come percorso necessario, da parte dei registi, per arrivare al sorprendente sblocco di quella rimozione morale che non impedisce l’emersione di una verità inconfutabile, resa evidente anche alla sensibilità dei due criminali che abbiamo seguito mentre cantavano e ridevano nel ripercorrere la loro ferocia.
Attraverso un gioco di equivoche catarsi, lo scambio di ruoli e il passaggio da un piano all’altro della narrazione, scatta qualcosa di assolutamente nuovo e imprevisto. Un sussulto di dignità e di rimorso in questo circo degli orrori da cui sembrava impossibile uscire e del quale più volte ci siamo sentiti quasi complici. Eccolo. Nella scena finale, Anwar Congo non parla più. Non ride. Si blocca mentre tenta di risimulare il rantolo che precede la morte mentre è nei panni della vittima. Non riesce più a “guardarsi” nelle riprese che lo ritraggono. Si alza, si allontana dal televisore, si ferma e immobile osserva le scale della sua pacchianissima villa di “gangester padre della patria”. In silenzio.