di Fabrizio Croce/Il Torino Gay & Lesbian Film Festival – nel nome ufficiale sui programmi e sui manifesti mancano le iniziali B per bisessuale e T per trans gender che invece sono ormai parte integrante del nome del movimento per i diritti civili – quest’anno sembra muoversi tra due polarità ben definite dal punto di vista cinematografico, in corrispondenza con i differenti contesti culturali, sociali ed esistenziali da cui tale moto opposto e speculare prende il via e crea suggestioni e riflessioni intorno ad un nodo che sembra comunque centrale, a prescindere da quale parte dell’equatore viene osservato ed analizzato: il rapporto che ogni individuo ha con la propria sessualità e affettività e come questa dinamica interna definisca e dia un senso alle sue azioni all’interno di una Società che spesso, e anche qui a prescindere dalla collocazione geografica, alimenta, per negazione e contrasto. Un desiderio tanto più forte e spontaneo quanto più è represso e censurato.
Una mappa del mondo di quello che brucia sotto la pelle e dentro i cuori delle persone, e la cui manifestazione, in termini di immaginario, può essere totalmente differente e dissonante, creando anche un disorientamento nella visione giornaliera di più film e con proiezioni anche abbastanza ravvicinate, che restituisce bene però il processo di sorpresa e spaesamento attraversato dai personaggi protagonisti di questi film di fronte alla scoperta delle proprie passioni e delle proprie pulsioni. Così nel vietnamita Cha va con va ci troviamo immersi e avvolti fin dalla prima inquadratura – la panoramica di un fiume che tocca le rive di un villaggio rurale – nella descrizione dello spazio e del tempo. Siamo negli anni ’90, di un paese, il Vietnam appunto, che raramente ci viene raccontato nelle fasi più recenti della sua storia, in particolare per quanto riguarda gli effetti che hanno lasciato, a livello culturale, sociale ed economico, le sanguinose guerre interne alimentate e sostenute dall’Occidente. Entrando più nello specifico, c’è la descrizione della gioventù che abita quella zona sospesa tra attaccamento a una struttura sociale fondamentalmente ancora contadina, molto patriarcale e maschilista, in cui la donna è trattata senza mezzi termini come essere inferiore da sfruttare e abusare, e le derive e gli sbandamenti di un modello di vita consumistico ed edonista, malamente importato dal processo di occidentalizzazione, dove gli eccessi di alcol, denaro e violenza stordiscono e riempiono i vuoti esistenziali di ragazzi la cui precarietà è ben espressa dall’immagine di quelle case galleggianti sopra il fiume su cui i protagonisti compiono i loro (falsi) movimenti. In effetti, in questo contesto, l’unico movimento reale perché ancorato a un reale desiderio sembra essere quello compiuto dal protagonista, Vu, che, attraverso la passione per la fotografia (“Cominciamo a desiderare ciò che guardiamo intorno a noi” diceva Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti…) sublima il suo amore per il coetaneo Thang, distratto e perso nel pericolo della vita notturna e un po’ criminale delle zone più urbanizzate, fino a una sofferta eppure liberatoria definizione della sua identità sessuale ed emotiva, calata però in una dimensione straniante e fortemente simbolica che crea una distanza anche incolmabile nello spettatore, in particolare occidentale, non solo nel provare empatia, ma anche nel comprendere il come e il perché dell’outing che vive.
Decisamente più accessibile, forse perché proveniente dalla cinematografia indiana che ha maggiori contaminazioni e risonanze con l’Occidente e in particolare con le culture anglofone, è quell’Angry Indian Goddesses, che non a caso ha vinto il premio del pubblico al Festival del Cinema di Roma lo scorso anno, e che anche qui ha suscitato applausi a scena aperta a fine proiezione, e qualche imbarazzato e confuso silenzio. Le ragioni di questo consenso dichiarato e diffuso possono trovarsi nella struttura classica e così familiare allo spettatore di ogni latitudine del film a tematica prettamente femminile, con la situazione topica dell’eterogeneo gruppo di amiche, dalla manager in carriera alla donna della servitù, che si ritrovano in occasione del matrimonio di una di loro e, in una spazio e in un tempo esclusivo, si confrontano e parlano delle loro vite, con un inevitabile, particolare attenzione nei confronti dell’amore e della sessualità. Fino a qui niente di nuovo, il riassunto della trama di un genere cinematografico o anche del plot di una serie televisiva con tutte le sue convenzioni narrative, inclusa l’alternanza sapiente tra momenti di confidenza e intimità e dinamiche conflittuali. Ma a fare la differenza, eccome in questo caso, è il contesto della società e della cultura indiane dove la violenza maschile nei confronti del corpo femminile non è episodica, ma internamente strutturata e giustificata, anche a livello ufficiale, nella relazione uomo/donna. E con un’accelerazione decisamente violenta e assordante, un po’ effettistica seppure necessaria , il regista del film Pam Nalin introduce la rappresentazione di questa violenza nella parte finale, dopo averci intrattenuto e fatto riflettere, con un sapiente e un po’ ruffiano mix di ironia, commozione e tenerezza per circa un’ora e mezza, su come il desiderio femminile possa emergere, essere riconosciuto e chiamato per nome oppure “mimato”, ad esempio nella divertente e intelligente scena di outing omosessuale di una delle protagoniste, in una situazione in cui le donne si incontrano e si raccontano senza l’imperante e castrante occhio degli uomini. Negli ultimi venti minuti parte invece una stridente virata verso un melò della vendetta e della rabbia che esplode quando la minaccia della violenza, fino a quel momento solo evocata dai discorsi , si concretizza contro la più giovane del gruppo, spostando il presagito finale di un festoso e anti patriarcale matrimonio gay in una conclusione più tragica, ma anche didascalica: l’esposizione didascalica della speranza che la solidarietà non solo più fra donne ma generalizzata a tutta la comunità possa vincere le iniquità della giustizia ufficiale. Tutto sembra però alla maniera di uno spot da pubblicità progresso, che spegne e imbriglia un po’ i percorsi e i desideri “altri” tracciati fino a quel momento.
Se i passaggi in India, dal nome di una delle sezioni del festival, aprono uno squarcio talvolta inedito sulle ragioni e sulle pratiche del desiderio, con la massiccia presenza del cinema tedesco, da sempre un crocevia pulsante e virulento del desiderio in chiave omo, quello che più di tutti la Società ci ha insegnato a stigmatizzare, condannare e poi a nascondere sotto il tappeto, siamo immersi in un’atmosfera grigia, geometrica, fredda, dove il desiderio spesso ha la necessità di essere incanalato in una strategia o in uno schema e brucia comunque sotto lo strato di un’estetica cinematografica plumbea, lasciando, in ogni caso, emergere solo le ceneri di ciò che potenzialmente poteva essere, della rivoluzione che quel desiderio poteva provocare non solo a livello individuale ma anche a livello sociale.
Nell’anno de Il Caso Spotlight, l’inchiesta giornalistica premio Pulitzer sui preti pedofili di Boston, e de Il Club, la cupa e potente riflessione esistenziale e filosofica di Pablo Larrain su un clero malato di desiderio e di colpa, il tedesco Verfehlung – tradotto in italiano come “la colpa” anche se una traduzione più letteraria e forse più pertinente suggerisce la “mancanza” – racconta, in una chiave più cronachista e asciutta, ancora di clero e pedofilia. Siamo in una piccola comunità, dove lo zelo e la dedizione di un prete giovane e prestante, che gioca a calcio e frequenta le birrerie, si sposta in maniera ineluttabile e inesorabile oltre la soglia dell’attrazione legittima per i ragazzini, meglio se provenienti da famiglie disagiate e precarie, di cui dovrebbe prendersi cura. Il film di Gerd Schneider non si sofferma tanto sul conflitto interiore del prelato che rimane sullo sfondo soffocato e sepolto dall’omertà della Chiesa, raffigurata non tanto nella sua dimensione macro di Potere occulto e distante, quanto, con tono monocorde e lineare, nella quotidianità della vita parrocchiale, nel contatto e nel contagio diretto e concreto tra religiosi e laici, adulti educatori e giovani da educare. Al centro di questa comunicazione faticosa c’è un altro tipo di conflitto interiore, quello più etico del sacerdote e migliore amico del prete accusato, la cui intransigente richiesta di verità e di giustizia quasi porta alla disintegrazione quel piccolo mondo chiuso in se stesso, riflesso di un Male più grande e radicale; una minaccia contro la quale i suoi rappresentanti reagiscono compattandosi rigidamente intorno al principio deviato che ha fatto del Desiderio uno strumento di potere e di mercificazione, confondendo completamenti i sensi e le direzioni ( “Ero innamorato”, dice il prete abusante all’amico che lo incalza).
Il Desiderio che confonde le categorie e i ruoli di vittima e carnefice, così impresso nel dna della cinematografia teutonica, nella rivisitazione fassbinderiana del menage a trois di matrice francese(Nouvelle Vague, Carax, Assayas) e di un certo Losey (Il servo) si presenta in Die Geschwister sotto le spoglie di un fratello e una sorella, forse tali o forse no, probabilmente polacchi, che si insinuano e sconcertano la vita anonima e silenziosa di un agente immobiliare che cede immediatamente al desiderio per il biondo, disinibito e selvaggio ragazzo polacco, salvo poi rimanere incastrato nella vertigine di seduzione e opportunismo, autenticità e inganno, spontaneità e manipolazione dei due fratelli.
Anche qui c’è un cielo plumbeo, questa volta sopra Berlino, e tutto si svolge nella concretezza del contatto e dello spazio – la casa vuota e sfitta dove i tre per un istante creano una fragile convivenza – sulla pelle e sui corpi, con l’Eros che diventa l’unico strumento di conoscenza, non mediato e non schermato, dell’Altro, e che, una volta consumato, lascia di nuovo l’esistenza dell’agente immobiliare nell’attesa e nel silenzio, e quelle dei due fratelli impostori nella ricerca a vuoto di un luogo chiamato casa e di una storia nuova da inventarsi.
Un cinema che, ovunque e comunque, non smette mai di evocare la forza del Desiderio e ne fa assaporare le possibilità e le resistenze, la natura ieratica e fluttuante come lo schiacciante, ineluttabile peso specifico.