Un avvio fortemente contrastato quello del Torino Film Festival di quest’anno, nell’edizione della cifra tonda (l’esordio nel settembre del 1982, col nome di Festival Internazionale Cinema Giovani) e dell’ultima direzione di Gianni Amelio. Già si erano messe, in questi mesi, le scaramucce a distanza, presto tramutatesi in guerra aperta, con il Festival di Roma; poi è arrivato nell’immediata vigilia il gran rifiuto di Ken Loach a portare a Torino il suo ultimo film, La parte degli angeli, e ritirare il Gran Premio Torino a lui destinato. L’impressione di chi scrive, in verità, è che da entrambe queste vicende il festival tutto sommato ne sia uscito bene.
Nel primo caso perché l’arroganza politica ed economica dell’entourage romano, se è riuscita a spuntarla sulla cruciale questione della collocazione, installandosi nel calendario, con la grazia di un elefante, giusto una settimana prima del TFF, non pare tuttavia aver garantito alla kermesse maggiore appeal. La manifestazione, affidata per il primo anno a Marco Muller, ha ancora una volta convinto poco il pubblico e ancor meno la stampa, che ne ha perlopiù sottolineato il livello mediocre delle opere proposte. Confermandosi così un ibrido non compiuto tra la qualità cinefila che il nuovo direttore avrebbe dovuto portare in dote e le «velleità americane», che il festival/festa si porta con sé sin dalla sua genesi e ancora non sepolte. Nel secondo caso, la presa di posizione di Loach a sostegno dei lavoratori del Museo del Cinema, recentemente esternalizzati a una cooperativa privata, e da questa sottopagati e vessati, alcuni di essi licenziati ingiustamente, per quanto sacrosanta in linea di principio, è sembrata rivolgersi ai destinatari sbagliati. Il Museo non può avere potere di intervento su un rapporto di lavoro regolato da un contratto stipulato a norma di legge, e ancor meno responsabile può esserne il festival, che ha finito per essere il bersaglio mediatico numero uno dopo l’uscita di Loach – un festival peraltro storicamente schierato «dalla parte giusta» e sensibile alle questioni legate al lavoro. E verrebbe poi da chiedersi se in altre realtà festivaliere la situazione dei lavoratori sia così più trasparente e più giusta che a Torino…
A parte queste considerazioni, i numeri riferiti al primo weekend del TFF sono, e non deve essere un caso, incoraggianti, facendo registrare rispetto allo scorso anno un incremento del 12,60% degli incassi (biglietti e abbonamenti) e del 10% degli accreditati. Una vitalità confermata anche dalla esperienza quotidiana di spettatore, che dice di sale quasi sempre piene, anche per spettacoli e in orari non propriamente di prima fascia.
Svolta la necessaria premessa «politica», il campo sarebbe ora sgombro, dunque, per parlare di cinema, ed esaltarsi senza più impedimenti per i film proposti dal fitto programma (223 i titoli in totale, di cui 70 lungometraggi). E invece qui purtroppo tornano a addensarsi le nubi, perché tra le prime cose viste quest’anno il panorama non sembra esaltante, soprattutto all’interno della rosa del concorso ufficiale. Il giudizio è espresso qui con grande prudenza, dal momento che il festival è tutto sommato nemmeno a metà: tanto c’è ancora da vedere ed è concreta la possibilità di aver fatto fin qui delle scelte sbagliate all’interno della programmazione. Tuttavia The Liability, Una noche e Smettere di fumare fumando, i primi tre che abbiamo visionato della competizione, hanno destato parecchie perplessità.
Il primo, diretto da Craig Viveiros, è un gangster-movie iper-adrenalico, beffardo e politicamente scorretto, come nella recente e ormai già consunta rivisitazione del genere proposta dal cinema britannico. Il già visto del già visto: indecifrabile la scelta di inserirlo nel concorso. Una noche, della cubana Lucy Mulloy, è un racconto di formazione e al contempo una riflessione dolorosa sullo stato di cose all’Havana, dotata di generosità giovanile e vis polemica, ma non di un autentico sguardo registico. Smettere di fumare fumando è la tragicomica cronaca filmata della settimana di disintossicazione dalle sigarette intrapresa dal fumettista-regista Gipi (L’ultimo terrestre): un po’ reality, un po’ fiction, un po’ cazzeggio, un po’ esistenzialismo spicciolo, in ogni caso troppo ombelicale per interessare qualcuno che non sia il suo autore.
E così le cose migliori sono venute finora dalle vie collaterali, e per questo più preziose. Per esempio dalla sezione sperimentale Onde, che ha proposto due affascinanti film di fantasmi: l’ironico e lunare corto Os vivos tambem choram del portoghese Basil da Cunha e il mediometraggio (65’) Les gouffres di Antoine Barraud (co-protagonista il grande Mathieu Amalric) storia di una donna catturata dal richiamo ancestrale di un cratere che conduce (forse) al centro della Terra.
Del Torino Film Lab, laboratorio che supporta i talenti emergenti del panorama internazionale, si sono apprezzati Wadjda – La bicicletta verde (a cui si riferisce la foto) di Haifaa Al Mansour, prima cineasta donna in Arabia Saudita, e Djeca – Buon anno Sarajevo di Aida Begić, già menzionato dalla giuria di Un Certain Regard a Cannes e vincitore a Pesaro.
Tra i documentari italiani ha colpito la delicatezza di Nadea e Sveta di Maura Delpero, storia di due donne moldave sospese tra l’Italia, dove, emigranti, hanno trovato il lavoro e l’emancipazione, e il paese d’origine a cui sono indissolubilmente legate. Un discorso a parte lo meritano gli unici due fuoriclasse visti finora: cioè Leos Carax, con il suo ultimo, folle Holy Motors, che d’altra parte aveva già rischiato di vincere Cannes a maggio, proposto ovviamente fuori concorso; e il sempre più grande Sion Sono, omaggiato qui l’anno scorso di una magnifica retrospettiva integrale, e che quest’anno ha portato Kibô no kuni (The Land of Hope), che continua la riflessione sul post-Fukushima dopo il capolavoro Himizu.
Lo riprenderemo, il discorso su Carax e Sono, nei prossimi giorni, certi che avremo negli occhi altre visioni con cui riaccenderli…
Il festival di Roma è un giocattolone costoso voluto da Veltroni ed ereditato dal (de)moralizzatore Alemanno. Sarebbe da chiudere per razionalizzare spese e gestioni festivaliere. Loach forse ha sbagliato bersaglio anche se mi pare abbia creato un’attenzione dovuta a queste forme di sfruttamento cui il Museo si appoggia. Non tutto è inevitabile e sentire il pluripoltronato direttore del Museo contemporaneamente direttore del festival di Venezia discettare di precari e lavoro mi faceva un po’ sorridere.
Sì sì, d’accordo su Barbera.
Rimane però il dubbio sulla pertinenza della questione rispetto all’organizzazione del festival. E di conseguenza un interrogativo che se potessi girerei, non provocatoriamente ma con sincera curiosità, a Loach: vista lo scenario attuale del lavoro in Europa, a quale festival nel prossimo futuro si sentirà di andare senza rimorsi di coscienza?
adoro il cinema e tutto quello che c‘è dietro infatti questo articolo mi è piaciuto molto