In una scena di Kibou no kuni – The Land of Hope, Mitsuru e Yoko, due dei protagonisti, si fanno strada tra le rovine della città di Nagashima, devastata e spoliata dall’esplosione della locale centrale nucleare, nella disperata ricerca dei propri familiari, probabilmente sepolti sotto le macerie. Rahima e Nedim, in una sequenza reiterata di Djeca – Children of Sarajevo, attraversano, spesso di notte, un sottopassaggio buio e degradato della Sarajevo contemporanea, districandosi tra le ombre di una umanità residuale, fantasmi di una guerra terminata non troppo tempo fa.
Sono due flash di due dei film più interessanti visti finora al Torino Film Festival, accomunati fortemente dalla circostanza di documentare due realtà post-catastrofiche di immediato riferimento alla storia recente. Nel caso di Dejca, Aida Begić, giovane (classe ‘76) cineasta nata e cresciuta a Sarajevo, si fa carico di tradurre in immagini la concreta esperienza di una intera generazione di suoi concittadini e compatrioti, che hanno avuto la guerra in casa da adolescenti e ora, da adulti, si trovano a gestire il post-conflitto, in assenza di qualsiasi progetto pubblico di ricostruzione. Begić incarna le speranze e le angosce di un popolo nel personaggio di Rahima, ventenne orfana dei genitori, che cerca di sfangarla lavorando nel ristorante di un boss locale, mantenendo così anche il fratello Nedim; lui è un quindicenne difficile, comoda preda della violenza e della malavita dilagante. Attorno a loro si muove un’umanità segnata dalla guerra, tanto nella materialità del quotidiano, quanto nei rapporti umani.
Ogni tanto, nel montaggio, inserti originali della tv bosniaca, riferiti alla guerra, dialogano con la fiction senza che si determini alcuna discontinuità, veri e propri controcampi della narrazione. Ma nei dialoghi il conflitto è poco citato, i suoi segni sono da rinvenire nello scenario urbano deturpato, nella (auto)devastazione di una gioventù segnata dalla droga, nella corruzione facile, nell’assenza di sorrisi sui volti di ragazzi. E poi i boati improvvisi e reiterati: in strada si prepara il Capodanno imminente, ma in ogni scoppio, più che la festa, riecheggiano le bombe. Perlopiù, la camera di Aida Begić si attacca alla nuca della sua protagonista sin da subito per non mollarla praticamente mai, pedinandola, con prolungati e ossessivi pianisequenza, lungo le sue giornate di lavoro e resistenza quotidiana. Il richiamo alla Rosetta dei Dardenne, per scelte estetiche e disegno psicologico del personaggio, è vivissimo, sin da quel gesto ripetuto di Rahima che si aggiusta il velo islamico sotto cui nasconde le proprie emozioni, come Émilie Dequenne si aggiustava la cuffietta da operaia.
Dopo Himizu, visto a Venezia nel 2011, con Kibou no kuni Sion Sono prosegue la propria riflessione sull’angoscia del nucleare. Parla ancora di Fukushima, ma lo fa ipotizzando un nuovo incidente nucleare, in un futuro imprecisato ma vicino, nella immaginaria centrale di Nagashima. Un’esplosione che provoca un terremoto devastante, uno tsunami che spazza via molte vite e costringe intere famiglie ad abbandonare le proprie case. La paranoia delle radiazioni si diffonde, carezzando la follia in alcuni casi, o chissà la previdenza.
Scoprendosi, dopo più di trenta film, cineasta intimista, a Sono interessano le conseguenze emotive del fatto che intervengono su esistenze che sembrano star lì a reiterarsi da intere generazioni, da sempre, e perciò è ancor più devastante l’impatto: su Yasuhiko e la moglie amatissima Chieko, sul loro figlio Yoichi e la sua giovane sposa incinta Izumi. Se in Himizu, capolavoro di rara intensità emotiva e al contempo lucidità, Sono collocava due ragazzi, soli e spersi il giorno dopo il disastro di Fukushima, in un contesto letteralmente di dopo-storia, antinaturalistico ed estremo, qui il regista giapponese abbassa i toni e la velocità del suo cinema solitamente eccessivo, iper-dinamico e sanguinolento, adagiandosi sui tempi dilatati (140’) di un’esperienza della catastrofe che passa prima di tutto attraverso la contemplazione. Anche poetica.
Due film lacerati da un’angoscia profonda, seppur diversamente declinata, che dalla constatazione di tragedie storiche, «oggettive», si sposta presto verso l’assoluto di un mondo ferito e agonizzante. In entrambi si delinea però un orizzonte di umanità, nonostante tutto, che non può che arrivare dalla condivisione stessa dell’apocalisse. Due abbracci, corpi che si avvinghiano e si giurano ostinatamente di esserci l’uno per l’altro sempre, per la vita e oltre.