In un concorso caratterizzato per la maggior parte (almeno secondo l’esperienza di chi scrive) da ritmi lenti, atmosfere rarefatte e dialoghi minimali, spicca la diversità di una pellicola caotica, convulsa, rumorosa.
La Bataille de Solférino, dell’esordiente francese Justine Triet, è un film caratterizzato dall’inizio alla fine da una frenesia e da un rumore (di fondo e non) che trascinano lo spettatore verso lo spaesamento, per poi lasciarlo a fine proiezione quasi assordato, ma consapevole di aver “ricevuto” qualcosa che in qualche modo gli rimarrà dentro.
Un frastuono ai limiti del sopportabile, dunque. Eppure non un suono è di troppo: pianti e schiamazzi di bambini, clacson e sirene provenienti dalla strada, urla e latrati, tutto serve a entrare nel mondo descritto dalla regista, che decide qui di raccontare una giornata particolare e di portata storica.
La giornata è quella di domenica 6 maggio 2012: secondo turno delle elezioni presidenziali francesi, decisivo ballottaggio tra Sarkozy e Hollande. Laetitia, donna in carriera e madre, è una dei tanti giornalisti che vivranno e racconteranno l’evento dalle piazze parigine, dove una folla vociante si sta radunando in attesa dei risultati.
Per l’occasione, affida i due figli piccoli a Marc, maldestro e inesperto baby-sitter, incaricato di resistere, eventualmente, anche alle pressioni dell’ex marito della cronista, Vincent, inaffidabile, violento e intenzionato a presentarsi da un momento all’altro a riprendersi i pargoli.
La giornata elettorale scorre così per Laetitia tra una diretta e un rapido spostamento in moto (dalla rue Solférino del titolo, quarter generale socialista, alle piazze gremite dai sostenitori di Sarkozy), una intervista e una testimonianza illustre, una telefonata a casa per gli ultimi aggiornamenti familiari e un consiglio/ordine (non sempre saggio, per la verità) dato al povero Marc, suo malgrado coinvolto in una situazione infernale.
La suspance non sta ovviamente nel ballottaggio presidenziale, il cui esito è impossibile non conoscere, ma nell’incertezza sulla sorte dei bambini, completamente in balia degli eventi e di donne (e uomini, ragazzi) sull’orlo di una crisi di nervi, e che di punto in bianco si ritrovano sballottati in mezzo alla corrente umana impazzita e festante.
A tarda sera arriverà poi la resa dei conti finale, in una lunga sequenza in interno notte tra i due ex coniugi, il nuovo compagno di lei, il sedicente avvocato di lui e il cane di quest’ultimo, durante la quale sembra di scorgere qualche eco del Polanski di Carnage.
Justine Triet rappresenta così una piccola storia personale dentro la Storia vera e propria, mostrando l’impotenza e la piccolezza degli esseri umani. Niente va come previsto e i loro tentativi di risolvere problemi e di incidere sulla realtà non hanno effetto. Ognuno sembra travolto da qualcosa di molto più grande, una foglia al vento, incapace di padroneggiare la situazione. I pochi momenti di relativa quiete anticipano sempre il sorgere di una difficoltà più grande.
L’intento della regista – che può dirsi riuscito – è quello di raccontare personaggi imperfetti, difficili, disadattati, tormentati: in una parola vivi. Hanno tutti molte sfumature e anche quelli in apparenza peggiori hanno la loro parte di ragione.
In una situazione concitata come la vita stessa sa essere, quelle che emergono dal frastuono sono dunque, per dirla con filosofia, figure umane, troppo umane.