Trentaquattro anni e già una decina di lavori alle spalle, tra documentari e corti, Lorenzo Cioffi porta al TFF il corto/medio (25’) Il viaggio di Ettore, in cui segue il ligure Ettore Pugliaro di ritorno dopo molti anni a Napoli, dove per vent’anni, dal 1970 in poi, ha vissuto e ha lavorato, come operaio all’Italsider di Bagnoli. Il filo narrativo del documentario di Cioffi, inserito nella sezione Italiana.corti, è costituito dai ricordi di Ettore, che racconta dell’arrivo a Napoli, della vita di fabbrica, delle lotte degli anni Settanta per i diritti dei lavoratori e per una società più giusta. Sullo sfondo scorre, attraverso il repertorio del Luce, la storia pubblica dell’Italsider e della città, fino alla dismissione della fabbrica nel 1989.
Incontriamo Lorenzo Cioffi a Torino, a margine della prima proiezione del suo lavoro al festival.
Il viaggio di Ettore nasce da un progetto promosso dall’assessorato alla cultura del comune di Napoli e finanziato dall’Istituto Luce per la realizzazione di tre documentari incentrati su Napoli, che rispettassero l’obbligo di utilizzare materiale dell’Archivio Luce per una quota del 40 per cento della durata totale. Come ti sei trovato a lavorare con questo vincolo?
Essere consapevoli dei vincoli nei quali agire, in cui far vivere un progetto, trovo che sia fondamentale. I vincoli ci sono sempre e per le più svariate ragioni: possono essere presenti nel «mandato» che si riceve o nelle particolari condizioni di ripresa o, ancora, essere imposti da fattori esterni, come lo scorrere della propria vita… Il primo di tutti i vincoli è il dato economico. L’importante è che i vincoli abbiano un fondamento, e una coerenza. E in questo caso direi di sì. Trovo interessante quindi lavorare a partire da un mandato; avere una griglia, un punto di partenza, credo sia un aiuto.
Come hai identificato il «personaggio» di Ettore? Lo conoscevi già prima del film?
Ettore in un certo senso ha rappresentato la chiave per accedere a un discorso e a uno sguardo sulla città di Napoli. Si può dire che l’ho scelto a partire da un’idea, e non il contrario.
Il «mandato» del Luce era di raccontare, utilizzando in buona parte il materiale di repertorio del loro archivio, «l’anima» di Napoli. Il mio primo processo mentale, istintivo, è stato respingere qualsiasi cosa si potesse anche solo avvicinare alla «tradizione». In questa sede mi limiterò a dire che tale compito sarebbe stato innanzitutto troppo arduo. Dal mio punto di vista era invece importante raccontare qualcosa che ha segnato profondamente la città dal secondo dopoguerra: l’industrializzazione e le conseguenze sociali di questo fenomeno. Una storia che pare essere stata rimossa.
Da qui, Ettore. Ettore lo conosco da quando ero piccolo, era un amico di mio padre e ricordavo da bambino di aver trascorso diversi momenti di vacanze assieme. Conoscevo la sua storia, anche se poi, da grande, non l’avrei più visto, se non in rare occasioni. Questo film è stato anche un’occasione di conoscenza reciproca.
Il racconto di Ettore, il tessuto della sua memoria, è fortemente politico. Sei stato tu a indirizzare il suo discorso in questo senso?
No. Il vissuto di Ettore a Napoli e in fabbrica è stato un vissuto militante. La sua vita, il suo sguardo, non poteva, e non può, prescinderne. Io, nello scegliere lui, ero ovviamente consapevole della sua prospettiva.
Il ritorno di Ettore a Napoli costeggia la fabbrica ma non entra lì dove sorgeva l’Italsider. Perché questa scelta?
Perché il centro del discorso non è il lavoro in fabbrica, ma ciò che significava per la città la presenza di una realtà industriale come quella degli anni ‘70 a Napoli. L’Italsider era il simbolo di una città industriale che si estendeva su tutta la zona ovest ed est della città. Oggi restano solo tracce di quanto c’era allora.
In maniera sfumata e mai totalmente esplicita, il tuo documentario sembra esprimere un rimpianto per una «storia mancata», la storia di Napoli città industriale.
Non ho rimpianti. Mi limito ad osservare. E a porre delle domande. Allora c’era qualcosa. E accanto ai fumi tossici e all’inquinamento c’era – oltre che i posti di lavoro in quanto tali – una visione forte, c’era «la possibilità di». Oggi cosa c’è? Semplicemente non c’è nulla. E Bagnoli ne è metafora fisica: il nulla dove prima c’era la fabbrica. Il nulla materiale e il nulla intellettuale. Dopo vent’anni ancora nessuno è capace di esprimere una visione su cosa debba essere quel territorio, e come quello tanti altri. In fin dei conti manca una visione su cosa debba essere Napoli.
Il film mi è sembrato innanzitutto un’esperienza percettiva: il tentativo di creare un vero e proprio ambiente audiovisivo dentro il quale far nascere e alimentare i ricordi di Ettore. Perciò c’è un lavoro molto denso e accurato sull’immagine, sia sul repertorio del Luce, sia sul tuo girato. Puoi dirci qualcosa di più su questo?
Mi piace quanto dici, ma non sono sicuro che le mie intenzioni all’inizio del lavoro fossero così chiare. Credo sia una cosa che si sia costruita strada facendo. Con la montatrice Chiara Ronchini abbiamo scelto di lavorare con il materiale di archivio e con il nostro girato cercando di ricostruire una sorta di piano temporale alternativo, in cui presente, passato e futuro si mischiassero e confluissero nella notte finale. Un film decisamente pessimista. La scelta di girare in super8 – che ha contribuito al discorso di cui sopra – nasce dalla volontà di dare «peso» a ciascuna ripresa.
Che cosa intendi?
Il modo di lavorare tra digitale e pellicola è molto diverso, con la seconda si è obbligati a pensare molto prima di girare. E dovendo girare scene apparentemente banali, come Ettore che cammina per la città, sentivo il bisogno di qualcosa che mi aiutasse a vincere la pigrizia, e a dare «valore» al nostro atto di filmare. Ecco, quindi, un altro vincolo che mi ha soccorso. Aggiungo poi che la scelta del super8 è legata anche al fatto che sapevo che avrei potuto contare su Corrado Costetti, fotografo e collega, in quest’occasione direttore della fotografia, la cui esperienza e bravura con la pellicola mi rassicuravano.
Anche il lavoro sul sonoro è interessante: personalmente ho avuto l’impressione di un intento iper-realistico nell’immettere in post-produzione dei suoni appartenenti a certi ambienti precisi e puntuali (la fabbrica, per esempio), il cui utilizzo però va oltre il semplice realismo.
Concordo. Il sonoro del film infatti è integralmente realizzato in post-produzione da Francesco Amodeo. Questa scelta nasce proprio dalla volontà di distaccarsi dal realismo «elementare» del suono d’ambiente. Si è lavorato a partire da singoli suoni che poi, una volta montati insieme, sono stati fondamentali nel costruire quella atmosfera di sospensione di cui si diceva.
Tu sei nato e vivi a Napoli, eppure, dei dieci titoli della tua filmografia, questo è soltanto il terzo ambientato a Napoli: come mai? È solo una questione di opportunità o
c’è una scarsa ispirazione che ti viene dalla città?
Contingenze e vincoli, direi. Dopo il liceo ho studiato fuori, prima Roma e poi Parigi. I primi lavori, i primi giri professionali sono nati dunque fuori dalla città. Poi, tornato a Napoli, ho cercato – e cerco tutt’ora – di mantenere vivi i rapporti con l’estero. Vorrei poi che Napoli perdesse questa sua «specialità», che diventasse come qualsiasi altra grande città europea: si chiederebbe mai a un berlinese perché non faccia film solo su Berlino?
Finora, se si esclude il breve corto contenuto in Napoli 24, hai sempre lavorato a prodotti di non-fiction. Ti consideri un documentarista «puro» o sei aperto ad altre forme di racconto?
Professionalmente mi sono formato con il documentario d’osservazione, ma a parte questo non saprei cosa aggiungere. Il cinema che amo va da Kechiche a Wes Anderson.
In Passeurs de Rêves, un documentario che hai realizzato insieme a Silvia Angrisani, dai conto della realtà dei cinema indipendenti di Parigi, cioè di quelli che stanno fuori dal circuito dei multiplex. Quanto è diversa, secondo te, la realtà delle sale in Francia rispetto all’Italia?
Purtroppo sono due mondi molto lontani. Parigi è in questo senso un luogo unico: per ricchezza dell’offerta, per la presenza diffusa della lingua originale, per la competenza e la capacità di ciascun cinema di valorizzare la propria programmazione. Ho difficoltà ad accettare che Napoli, per esempio, la città in cui vivo, non abbia un pubblico per sostenere alcune sale realmente «indipendenti» e alternative. Secondo me, ma parlo a livello impressionistico, esiste tutto un pubblico che è stato semplicemente abbandonato e che non aspetta altro che poter tornare in sala, ma con una nuova concezione della sala.
Hai visto Sacro Gra e Tir? Cosa pensi della loro vittoria in festival «generalisti» come Venezia e Roma?
Ho visto Sacro Gra. Il fatto che sia stato premiato a Venezia immagino possa aiutare questo «modo di fare cinema» (il cinema documentario) a guadagnare un po’ di visibilità. Anche se forse lo stesso cinema documentario dovrebbe trovarsi un nome migliore per farsi identificare dal pubblico. Dipendesse da me, parlerei semplicemente di film. Per me il «film documentario» indica più che altro una modalità di lavoro, ma ciò che conta è la parola film. Lascerei invece la parola documentario a prodotti audiovisivi in cui è predominante l’aspetto informativo-didascalico.
Ottimo lavoro: creativo, impegnato, rigoroso, sentito.
Sulla “specialità” di Napoli, parole sante.