Il filo sottile che tiene insieme la trama ideale del cinema indie americano va tendendosi sempre di più, e forse ormai si è anche spezzato. Lo sapevamo da tempo in realtà, qui al Torino Film Festival ne abbiamo avuto in fondo solo un’ulteriore, flagrante dimostrazione. Da The Dynamiter a Terri, da Jess + Moss a The Catechism Cataclysm il cinema alternativo made in Usa è calato a Torino in forze, con tre presenze nel concorso principale (su sedici film totali) e almeno un’altra quindicina di titoli sparsi tra Festa mobile e Onde. Una rappresentanza quanto mai variegata nei generi, negli approcci espressivi e soprattutto nelle dinamiche produttive, tanto da far convivere al suo interno una produzione Fox come Win Win e il micro-micro-budget di un Bad Posture.
Pur astenendosi dai moralismi e senza voler certo assegnare stucchevoli patenti di purismo, è indubbio che soprattutto dentro la cornice di un festival come il TFF, da sempre votato, per storia e inclinazione, alla sperimentazione e al nuovo, interessa fino a un certo punto l’“indipendenza” di titoli come The Descendants e 50/50, film che tengono i piedi poggiati sul terreno dell’alternativo e gli occhi già puntati alla collina di Hollywood. Si tratta di opere che giocano ormai sul sicuro, limitandosi a riproporre storie, personaggi, volti e umori che negli ultimi quindici anni (circa) hanno caratterizzato il cinema indie che gli Usa hanno esportato nel mondo.
Alexander Payne e Jonathan Levine nei due film appena citati e Thomas McCarthy in Win Win (il primo del gruppo a uscire in sala in Italia: il 9 dicembre con il titolo Mosse vincenti) portano in scena dinamiche familiari e affettive tortuose, ma comunque recuperabili, parabole a lieto fine sulle seconde occasioni, incarnate in personaggi variamente buffi o sfigati; il tutto con toni dimessi e tempi della narrazione dilatati, in antitesi al montaggio sincopato del cinema spettacolare. Forti di una militanza consolidata nell’ambiente (Payne è quello di Election e Sideways, Levine si era fatto notare con Fa’ la cosa sbagliata, McCarthy è il regista de L’ospite inatteso), nei loro film torinesi i tre continuano a battere un sentiero noto, divenuto intanto largo e ben asfaltato, con la legittimità propria degli apripista. Esibiscono sullo schermo i feticci Paul Giamatti, Joseph Gordon-Levitt, Philip Baker Hall e Seth Rogen e all’occorrenza si avvalgono dei servigi dei divi borderline George Clooney e Anjelica Huston.
Sono film da Sundance che non rischiano mai, del cinema indie gli è rimasto addosso solo un vago gusto per il nonsense, una predilezione per i personaggi marginali e, su tutto, quella patina di carineria fagocitante ma esangue, che esclude a priori eventuali (salutari) derive di matrice solondziana. È un indie istituzionalizzato, che in quanto contraddizione in termini finirà per esaurirsi o, più verosimilmente, ed è quello che sta già avvenendo, per trasferirsi in massa a Hollywood e rinnovarne – rigorosamente dall’interno – le dinamiche narrative ed estetiche, come fu già negli anni ‘70.
E così, qui a Torino, la vera dichiarazione di indiependenza americana ci è sembrata arrivare da titoli minori, più coraggiosi e aperti al nuovo. Si è già detto del folgorante The Dynamiter, e allora si citeranno qui con piacere il folle The Catechism Cataclysm, il delicato Terri, il nostalgico Jess + Moss. Ma soprattutto ci pare giusto spendere qualche parola per il grezzo Bad Posture, opera prima di Malcolm Murray, forse il più radicale tra gli statunitensi in campo.
Se Payne-Levine-McCarthy guardano a un minimalismo declinato “alla maniera di” Wes Anderson, volendo trovare un riferimento adatto per Murray si dovrebbe risalire più indietro, magari all’universo poetico di Jim Jarmusch. In Bad Posture Flo e Trey, due ragazzi qualunque, vagano per le strade di Albuquerque, New Mexico, in cerca di qualcosa da fare. Viene in mente il lontano, bellissimo Stranger than Paradise (1984) mentre si segue la camera di Murray che con apparente indifferenza osserva i due protagonisti e altri amici un po’ balordi fumare e bere, cazzeggiare, lanciarsi in una baruffa, flirtare con una ragazza o rubare un auto sempre un po’ per caso. Interpretato quasi esclusivamente da non-attori, ai quali il regista ha chiesto in sostanza di interpretare se stessi, largamente improvvisato, Bad Posture tiene fermo il suo realismo urbano, per poi aprirsi di tanto in tanto in squarci onirici e lirici, grazie a una colonna sonora molto curata, svelando la sua natura profondamente romantica. Senza fretta, la vita scorre e forse si perde per sempre dentro il suo nonsenso, e Murray ne descrive un piccolo frammento, con infinito affetto verso i suoi eroi e fortunatamente libero dalla maniera dei suoi colleghi più maturi.