Filippo-Ariele al timone del peschereccio di suo padre Pietro, morto per acqua da appena tre anni, nota qualcosa al largo, sul mare. E passa il binocolo al Nonno, al Patriarca, a Prospero impersonato crudamente e arcaicamente da Mimmo Cuticchio.
Un gommone in avaria assiepato di gente, laggiù. Prospero segue la legge, quella contemporanea, quella degli uomini che impone di segnalare alla guardia costiera la presenza del natante in avaria. La voce dalla radio dice di tenersi lontani e di attendere l’arrivo di una vedetta.
Ma accade l’irreparabile. Gli dei mettono alla prova gli umani. La tragedia – in senso greco – ha inizio. Un gruppo di profughi si tuffa in mare e nuota verso il peschereccio. Chiede aiuto, pone in gioco la propria vita, reclama assistenza, nel rispetto della legge del mare. La vita è sacra, secondo la Tradizione che è più forte di ogni convenzione o legge attuale. E’ il codice originario della nostra civiltà, la Radice.
Come in ogni opera tragica, due codici si sovrappongono, due leggi entrano in conflitto sullo stesso dominio, nello stesso spazio e nello stesso tempo. Non sai quale delle due seguire, si squarcia la storia. Prospero non esita nemmeno un secondo. Lui sa, è un pescatore, conosce Atlantide, segue la legge del mare. E si tuffa a salvare una madre ed un figlio che stanno per abbandonarsi ai flutti. La donna è incinta e Prospero, dopo essersi assicurato che la vedetta abbia tratto in salvo gli altri esseri umani, fa ritorno a casa coi suoi naufraghi.
Prospero accoglie la donna nella sua casa, una spelonca dove si è sistemato con la figlia Giulietta-Miranda, madre di Filippo, e con Filippo stesso, dopo che la loro abitazione di pescatori è stata riammodernata e affittata a tre ignari turisti del nord. Fra questi Maura, biondina milanese, che per Ariele-Filippo diventa la “donna” che lo deve staccare dalla madre e far diventare uomo.
La naufraga negra partorisce una bambina, messa al mondo dalle mani benedette di Giulietta, e viene accolta con la sacralità dell’ospite e la pietà del bisogno. (E non è forse lei una Madonna nera, che porta in grembo un figlio di chissà chi? C’è forse bisogno di vedere la cometa per capire quello che sta accadendo?)
Il giorno dopo il conflitto si radica, la scena si drammatizza. I turisti loro ospiti vogliono fare il giro in barca che Ariele aveva promesso loro, quando tutto non era ancora accaduto. Avendo ceduto alla puerpera e al figlio il proprio giaciglio, nonno e nipote sono stremati dalla notte insonne, ma decidono comunque di portare in barca i turisti per tenerli lontani dai vagiti del neonato.
Ma al porto giunge la Finanza, col nuovo comandante, anch’egli del nord. Il peschereccio è ancora intestato a Pietro, il padre di Filippo. Non c’è passaggio di proprietà, non c’è la licenza per portare turisti a spasso per il mare. Ma soprattutto c’è il reato più grave ed odioso: Prospero non ha denunciato i quattro naufraghi che ha salvato dalle acque e che si erano dileguati nottetempo lasciandogli la puerpera incinta.
Imbarcazione sequestrata, documenti ritirati, mentre Ariele-Filippo, da vera forza della natura qual è, spiritello libero ed istintivo, non capisce nemmeno quello che sta accadendo, e si contrappone ad un potere, ad una legge che ignora la vita reale. Che contrasta la vita e il procedere degli eventi naturali. La legge disumana.
Ora, questo è il centro della storia, e della tragedia. Direi l’ortocentro. Il film ha una struttura fortissima, eppure semplicissima, levigata come un ciottolo di fiume, ma potente come il destino, fatta di simmetrie occulte e contrappunti continui fra situazioni e personaggi. Personaggi che, a ben vedere, nel momento in cui diventano “figure” di una tragedia, abbandonano la psicologia per essere mossi dell’archetipo di cui sono parte.
Le loro azioni sono necessarie, obbligate, e rispondono non al proprio ego, ma a quell’ego collettivo, quel soggetto storico, quell’inconscio collettivo che guida segretamente le storie ed i destini degli uomini della nostra civiltà.
Prospero doveva salvare le vite che il mare gli ha affidate, seguendo il Codice, oppure doveva tenersi a distanza e abbandonare i suoi simili al loro destino, a morte certa, come chiedeva la Capitaneria? Questo è il tema della riunione del popolo dell’Isola, della koiné che decide delle sorti e dei comportamenti dei singoli. Non a maggioranza, ma all’unanimità. Non ognuno per sé, come siamo noi ex-popolo italico, oggi spappolato in una miriade informe di consumatori sperduti nelle Stande e negli shopping center. Nell’assemblea irrompe Beppe Fiorello, che impersona lo zio di Filippo ed è quindi figlio del vecchio. Ma che in realtà è Calibano. Il tornaconto personale, l’utile e il profitto o, per dirla con il vecchio Prospero, “la Pubblicità”. E’ la televisione, che ci ha instupiditi tutti, relegandoci al piccolo meschino tornaconto personale. Anche con le menzogne.
Diceva Borges: “Viviamo in un’epoca molto ingenua; per esempio, la gente compra prodotti la cui eccellenza è vantata dalle stesse persone che li vendono”.
Calibano-Fiorello consiglia di lasciare i naufraghi alla loro sorte, passare oltre, tradire il Codice, perché l’Isola vive di turismo, e i suoi affari andrebbero a rotoli se si spargesse la voce. Esecrato dalla assemblea, messo a margine. Lui è fuori. E’ oltre il limite della civiltà. E’ il mostro. Diventa ridicolo, non perché sia buffo, ma perché è empio. I suoi turisti che si gettano a grappolo dallo yacht sono il simmetrico inverso dei nostri naufraghi della prima scena.
E lo vediamo, questo Calibano, ingraziarsi con regali i favori di Ariele, che lo aiuta a stendere lettini, aprire ombrelloni, pulire la spiaggia, allietare i turisti, riscuotere i soldi.
Ma… La tragedia è nel mare. La ruota del destino è oramai in moto.
Ariele è sotto l’influenza malefica della civiltà mercantile portata da Calibano. Convince Maura, la biondina milanese che abita nella sua casa, a seguirlo in un bagno notturno, alla luce della lampara. Spera di far colpo su di lei, di farla sua. Appena in acqua, il chiarore riflesso della luna sul mare all’improvviso brulica di mani e di teste. Altri naufraghi, altri uomini che cercano aiuto, altri esseri da salvare. Con Prospero, nessun dubbio, l’uomo salva l’uomo. Questo è il Codice. Ma sotto l’influenza di Calibano, lo spiritello infoiato ricaccia in mare quei poveri esseri, e scappa. Simmetricamente opposto, in contrappunto, tradisce se stesso. Segue il codice degli uomini, e si perde anche lui.
In parallelo Miranda-Giulietta, impersonata da una sensualissima Donatella Finocchiaro, una moderna Irene Papas, inquieta e fuori dall’influenza e dalla guida di Prospero, non vede l’ora di liberarsi dell’ospite scomoda, della famigliola nera. Anche lei si perde, dietro la legge degli uomini.
Quando esci dalle regole della vita, che sono diverse dalle regole de
gli uomini, non necessariamente contrapposte (lo sono solo nei periodi tragici), non sai più chi sei, hai perso i codici, le chiavi di interpretazione. Non sai più chi sei tu, e non sai più nemmeno chi è l’altro da te. E’ il concorrente, il nemico, il migrante, da cacciare o ricacciare in mare, da prendere a cannonate secondo i cosiddetti neo-celti. L’uomo di cui ti devi liberare. Ma principalmente non sai chi sei tu, come ti devi comportare, cosa è giusto e cosa no. E questa è una tragedia.
Ecco il punto centrale di Terraferma. Quello che ci fa accapponare la pelle. I disgraziati ricacciati in mare da Ariele di notte, nel riverbero della luna, quei disgraziati il mare li porta amorevole sulla spiaggia di Calibano, e li lascia lì, come uno scandalo al sole, la mattina seguente. La gente li tira a riva, qualcuno sopravvissuto suo malgrado, qualcun altro no. E’ il centro del dramma, sottolineato da un ralenty insistito, lirico. Per la prima volta vediamo i loro volti, li riconosciamo, nella loro deposizione. Perché lì sta il problema, il dilemma di Amleto, il cuore sanguinante della nostra civiltà. I migranti non c’entrano, sono solo l’occasione della tragedia. La tragedia è in noi, la nostra vita associata, le nostre assurde e complicatissime leggi, i nostri azzeccagarbugli che non rendono mai giustizia e verità, il nostro assurdo Parlamento che vota in massa l’incredibile fandonia di una conclamata prostituta marocchina trasformata in una legale parente di Faraone egizio, ormai decaduto e dimenticato. E’ la nostra vita di numeri, di codici fiscali, di legami che non corrispondono più alla civiltà che pure conoscemmo, alla nostra Itaca, quella che rimpiangiamo fra gli scaffali del supermercato, nelle scuole abbandonate, nel lavoro disumano e precario di un popolo che si è smarrito ed è finito nella mani dei Calibani che si proclamano onorevoli, ma che onore non hanno più. E’ la nostra corruzione.
Quei poveri corpi, cullati del mare, vengono presi in custodia dai Carabinieri. Il dovere dell’ospitalità si trasforma nel suo contrario nei cosiddetti Centri di Accoglienza, che sono camere di tortura.
E Ariele finalmente comprende. Rincorso da Calibano, si libera di lui e lo atterra. Si libera della sua finzione velenosa. Si libera della menzogna.
Parallelamente e simmetricamente, anche sua madre, Giulietta-Miranda, finalmente parla con la sua ospite che le rammenta la Tradizione, le sue mani che hanno portato alla vita la bambina figlia dello stupro, il suo nome quindi che deve esserle imposto in segno di riconoscenza e di legame inscindibile e perenne. Le due donne sono ritornate sorelle, il codice è ripristinato. Ora anche Giulietta sa cosa deve fare.
E’ ancora Cuticchio-Prospero a governare. Sorprendentemente sopravvissuto ad un cuore malfermo che sembra dover cedere, ma solido nei suoi propositi, inventa uno stratagemma per rimettere la viandante sul suo cammino. Ma ancora una volta la polizia cerca i migranti, i clandestini (queste parole orribili che ricoprono d’infamia il ruolo sacro dell’Ospite, protetto da Zeus e sacro sotto ogni latitudine).
Non si può raggiungere la Terraferma. Il traghetto e presidiato. Ma la Viaggiatrice deve raggiungere Torino, una volta meta degli emigrati del Sud d’Italia.
Ariele è lo spiritello matto che alberga dentro Filippo. E sarà lui a risolvere il dilemma. Rompe i sigilli del sequestro, carica a bordo del peschereccio di suo padre la famiglia e si lancia sul mare, verso la Terraferma. Quello stesso mare che nella scena 1 era visto da dentro, da sotto, adesso è visto dalla parte opposta, dall’alto, scuro e cupo, profondissimo. Lui che è stato la culla della civiltà e conserva i destini degli uomini dell’Isola, li circonda e li coccola, ma anche li affama, li divide e li unisce, separa le terre ma mette in comunicazione le civiltà che hanno visto la luce sulle sue sponde.
Il mare è anche il nostro monito. C’era prima di noi, ci sarà anche dopo. Come conclude una splendida canzone di Battiato che parla dello stesso argomento: “E il carattere umano /si insinuò, e non sopportarono più/ neppure la felicità:/In un giorno e una notte/ La distruzione avvenne/ Tornò nell’Acqua/ sparì Atlantide”.