di Fabrizio Croce/Incorreggibile Teresa. Non importa che sia diventata vecchia, stanca, disincanta, dopo un’esistenza consumata di corsa dietro a una sopravvivenza fatta di furti, piccoli espedienti, internamenti nei carceri comuni e psichiatrici, spesso in lotta e polemica contro il sopruso,  la violenza e l’ottusità maschile, in nome di un’allegra ed energica indipendenza: di fronte alla borsetta di una passeggera del tram che le sfila scintillante sotto gli occhi, l’atto di rubarla e fuggire via, come una ragazzina impertinente e non piegata al sistema,  ha la meglio su qualsiasi malinconia o arresa.

Ricordo di aver visto alcuni anni fa un toccante e caloroso ritratto televisivo curato da Giancarlo Governi e dedicato ad una Monica Vitti già da tempo abbandonata all’oblio della memoria dell’Alzheimer che, sulla dedica finale di ringraziamento e di augurio/domanda di dove fosse in quel momento, montava proprio il finale di Teresa la ladra, il furto a mo’ di sberleffo sul tram e la fuga vitale verso il prato fiorito dell’infanzia spensierata, a voler regalare metaforicamente una dimensione di leggerezza e libertà alla donna attraverso l’evocazione dell’attrice.

Quando fa Teresa la ladra nel 1973, diretta da Carlo Di Palma, che dopo averla ripresa come direttore della fotografia nel ruolo di tormentata, esistenziale e misteriosa  Musa  di Michelangelo Antonioni , negli anni ’70 ne fu per un periodo il nuovo compagno di vita e mentore cinematografico,  Monica ha ormai pienamente e maturamente compiuto il passaggio dal cinema dell’incomunicabilità e dell’imperscrutabile,  fatto di silenzi e intensi primi piani, alla chiassosa e popolare commedia all’italiana, costruita sui caratteri più che sulle psicologie e calata dentro un preciso contesto storico, culturale e sociale e non come  rappresentazione simbolica di una condizione dell’umanità.

Teresa è una figlia sfollata e sperduta della seconda guerra mondiale, in fuga da un padre padrone di campagna che le ispira e le alimenta lo spirito ribelle e iconoclasta e la rocambolesca  e resistente traversata della  vita;  un personaggio realmente esistito a Roma e a cui Dacia Maraini ha dedicato il romanzo  Memorie di una ladra di cui anche la versione filmica,  sotto la scorza del divertimento e della caricatura, mantiene l’impronta femminista e antipatriarcale e la riflessione anche dolente sul destino di chi nasce povera e donna in una società sessista e classista. Un racconto, come si usa dire con un gergo forse in disuso, con un personaggio femminile a tutto tondo, e per di più in una chiave comica, dove la Vitti, spesso chiamata a fare la controparte femminile dei mattatori Sordi, Tognazzi, Gassman, si appropria lei stessa dell’epiteto di mattatrice e relega gli uomini, attori ancor giovani se pur di vaglio come Michele Placido, Stefano Satta Flores e Carlo Delle Piane, ad opporsi a lei per far emergere con maggiore profondità le ingenuità, le contraddizioni, le asprezze e le tenerezze del personaggio: il bel gagà Placido che si fa nutrire, mantenere e cullare dalla generosità scriteriata di Teresa, “nera de passione e de fame”, in cambio di un’ora d’amore promessa e non concessa in auto oppure in una lurida stanza affittata; lo sgorbio omino piccolo, piccolo sedotto e abbandonato di Delle Piane, che Teresa umilia e deruba, provando a ribaltare le sue sorti sciagurate nel segno di una vitalità senza colpa e senza redenzione; l’Ercoletto, il “burino”, il Candido dal cuore d’oro di Satta Flores, il disgraziato di bell’aspetto con cui Teresa pensa realmente di poter mettere su casa nel cortile di un rione popolare, prima che ancora una volta gli schiaffi rapidi e tragicomici di una vita dal gusto sempre più grottesco non soffochino e rendano grigia, sfocata qualsiasi tentazione di dare regolarità e forma alla natura indomabile, caotica e luminosa  della nostra piccola ladra, in fondo spirituale sorella maggiore de la petite voleuse scritta da Truffaut, diretta da Claude Miller e interpretata dall’adolescente Charlotte Gainsbourg del 1988.

E pur trattandosi di una commedia tutta costruita sul ritmo e la velocità, seppur in un corposo ritratto d’epoca di circa due ore, la mano del  Di Palma direttore della fotografia si vede nella composizione dell’inquadratura, come gli spazi chiusi delle carceri, dei cortili, dei tram e delle stanze in cui Teresa si muove scalpitando prigioniera di se stessa e della sua fame di vita, ma anche il colore rosso fuoco dei capelli che diventa la dominante cromatica di tutto il film: il doppio opposto e speculare della Giuliana di Deserto rosso, l’alienazione mentale e la percezione distorta e dissociata della realtà contro la spontanea capacità di Teresa di esserne immersa, travolta ma comunque mai succube o sottomessa.

Verrebbe da dire che il panino dell’operaio addentato dalla Monica Vitti dell’Antonioni alla ricerca di una sapore e  di una consistenza è l’istinto di vita che implicitamente la Monica Vitti di Teresa la ladra porta dentro di sé e converte quel rosso,  da vincolo di impotenza e segnale lampeggiante di una distanza,  in un caloroso invito a danzare e a giocare.

Quello che, riprendendo il finale del programma omaggio di Governi, ci auguriamo stia continuando a fare Monica, incorreggibile come sempre.

One Reply to “Teresa la ladra e Monica che balla con la vita”

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