Ogni storia, per essere tale, deve contenere qualcosa di emblematico.
La domanda circa questa storia familiare si impone inevitabile, come un cartello di divieto di transito: occorre capire come e perché una non-storia, non-americana (lasciatemi dire) possa diventare emblematica. Vale a dire, come possa parlare al cuore o alla mente di ciascuno di noi.
Al di là anche della più meticolosa fedeltà autobiografica, cui si ispirara la sceneggiatrice e regista, Maya Forbes.
Analizziamo la traiettoria: è una parabola in caduta libera. Noi ne vediamo solo il tratto discendente, non l’epopea delle origini. “Cam”, il capofamiglia [Mark Ruffalo per i cinefili], è figlio di un’ottima famiglia di Boston con ampie disponibilità finanziarie ― della quale sopravvive solo la nonna, che però non molla la grana.
E siccome lui è nobile, di quella nobiltà plebea tipicamente americana ― non chiede, ed anzi rifiuta regali, pur trovandosi in stato di estremo bisogno. Ma non chiede perché sa che non gli verrebbe dato. E, in più, ci farebbe la figura del facchino. Noblesse oblige.
La madre, invece, Maggie, [Zoë Saldana] è una splendida e determinata donna nera con due figlie sul groppone e un marito che ha una sorta di “corto circuito” mentale, un collasso nervoso dovuto ad una sua predisposizione patologica. E si ritrova a indietreggiare, a effettuare una sorta di ritirata strategica continua nella sua vita, perché l’incipiente povertà non le consente di mantenere quel tenore e quel decoro cui per tutta la propria esistenza era stata abituata.
E che fa? Prova a far fruttare l’educazione, rilancia: si iscrive a un master in economia (il marito è semi-infermo a casa) e vince un posto a New York. E quindi prima per studiare ― e poi per lavorare ― consegna le sue due splendide bambine, una nera e l’altra anche (ma in realtà è bianca, bianchissima: solo che essendo figlia di nera eredita questo “sfregio”), al marito. Sperando che questa nuova responsabilità lo redima dall’alcool e dallo svaporamento mentale, alla “figlio dei fiori”, in cui è inciampato grazie alla malattia.
La famiglia stringe i denti, la mamma è fuori e lontana, le figlie assistite da un padre che avrebbe bisogno lui di assistenza, si arrangiano come possono e fronteggiano la cattiveria a modo loro. E, piano piano, tutto intorno a loro, frana. Piano piano. Smotta, perde terreno. La vita, i sogni, il desiderio di assicurare una istruzione decente, una vita decente alle due ragazze, diventano sempre più difficili. La famiglia cerca di attestarsi su casematte sempre incerte, da abbandonare al prossimo ripiegamento.
Questa non è la vita che avevano vissuto loro da ragazzi, ne è la smorfia capovolta. L’amore fra i coniugi c’è ma anche svapora, in quel misto di umana reciproca comprensione che non è più radiosa passione. E’ un brodino tiepido.
E, come asseriva il grande Wittgenstein nel suo Tractatus, proposizione 6.43: “Il mondo del felice è un altro da quello dell’infelice… In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire, decrescere o crescere in toto…”. Il loro mondo si è ristretto, senza che loro potessero impedirlo, come un maglione lavato male, e che non calza più le loro vite.
Il lavoro precario, perfino la rinascita di un certo razzismo, l’isolamento, l’abbandono degli amici, le famiglie avide che si tengono tutto per sé con i nonni ottantenni ancora al comando. Questo vi ricorda qualcosa? Qualcosa nella landa italica?
No? Peccato. Perché è questo l’emblema.
Una storia che non ha soluzione da quando un certo professore, coadiuvato da forze imprenditoriali innominabili, laggiù nella lontana America, coadiuvato da un ex-attore nelle vesti di Presidente, ha deciso di provare a vedere cosa sarebbe successo sulla terra se si fossero levate le regole che fino a quel momento la stavano governando in precario equilibrio. “Deregulation”, la chiamavano.
Ora sappiamo bene cosa sarebbe successo.
E’ successa la stessa cosa che è accaduta quando, all’altro capo del mondo ma negli stessi anni, un gruppo di buontemponi sovietici ha provato a vedere cosa sarebbe successo a non rispettare le regole di sicurezza in una centrale termonucleare, ignorando i successivi allarmi, e mandandone in tilt tutto l’apparato refrigerante. La centrale si chiamava Chernobyl.
Anche in quel caso, abbiamo capito bene cosa è successo.
Negli anni ’80 devono essere arrivati i marziani del pianeta Idiozia e si sono sostituiti a rispettabili professionisti terrestri, a professori, a capi di stato, in gonnella e non. Forse per gioco, forse per divertimento. Azzerando le ideologie e trasformando la civiltà. Da noi sono arrivate solo qualche anno dopo, ma con effetti altrettanto devastanti.
Purtroppo, i loro epigoni in Europa non sembrano essersene ancora accorti. Asserragliati nel bunker di Bruxelles, pontificano sulle economia altrui, costringendole ad inginocchiarsi agli stessi princìpi.
E questo è il mondo polare che lasciamo ai nostri figli. Teneramente?