Orso d’Oro al festival di Berlino, il film di Panahi ci parla dell’Iran. Grande paese, immenso e affascinante, cerniera tra i continenti e le loro civiltà millenarie, con echi di Oriente, di carovane, di città bellissime e antichissime.
Con un piccolo contributo di Wikipedia è facile poter tracciare i passaggi più importanti della sua storia e rievocare le imprese degli eserciti dell’impero persiano, riandare allo scontro con l’Occidente, con la Grecia.
Da una parte il multiforme ingegno con la sua filosofia, la gaia spensieratezza degli uomini e dei loro Dei dispettosi e litigiosi, una civiltà che ama il ragionare ed il creare, che ama il gioco, dall’altra l’esoterismo, l’uomo – dio, l’onnipotenza, l’impero sterminato e il soffocante potere assoluto, pur con una sua profonda ragion d’essere, un impero con una sua storia personalissima.
Ma l’Iran è anche i nostri tempi, come la Grecia d’altra parte. Ed è, allora, la rivoluzione Khomeinista, la cacciata dello Scià nel 1979, i marines americani inviati da Carter morti nel deserto, e l’inasprirsi successivo dei rapporti, la riduzione a stato canaglia e così via, fino ai giorni nostri.
Alcuni allora pensavano che quella fosse la Rivoluzione, o meglio, volevano servirsene per combattere il vero grande impero del Male, l’America. Adesso Obama, nero e pacifista, sigla trattati che riammettono l’Iran nella comunità internazionale, scongiurando una guerra disastrosa che sembrava alle porte, l’evoluzione in senso democratico dell’Iran è, a questo punto, auspicabile e da attendersi in periodi brevi. Speriamo.
Questo piccolo, parziale excursus per cercare di mettere a fuoco la cornice del film, che a me pare una cornice essenzialmente politica, e anche per cercare di gettare uno sguardo sulle peculiarità di questo grande paese, che personalmente trovo affascinante, come se stesse cercando di nascondere qualcosa, per future rivelazioni.
Jafar Panahi è un regista e un uomo coerente, forte nelle sue convinzioni, ama il cinema, la libertà, ama il suo paese. È disposto a lottare per questo e forse anche a morire, e francamente non è cosa da tutti.
Il suo cinema è un cinema essenzialmente politico, che ha un taglio fortemente documentaristico e documenta la vita e la società con il rigore e la passione di chi è stato ed è tutt’ora oggetto di violenze per la sua azione, e non è superfluo ricordare che è stato imprigionato e torturato e che rischia (speriamo di poter dire rischiava) condanne pesantissime per il suo operare.
Aiuto regista di Abbas Kiarostami, scrive con lui la sceneggiatura de Il palloncino bianco, suo primo lungometraggio. Ha diretto molti film, sempre di impegno e di denuncia, ricevendo numerosi premi ma subendo ostracismi e divieti in patria.
Del 2006 è Offside, dove vengono seguite le vicende di alcune giovani donne, che si travestono da uomini per cercare di entrare clandestinamente allo stadio ed assistere ad una importante finale della nazionale di calcio. Il film è molto bello, leggero, chiassoso, vitale, descrive sì una condizione femminile oppressa, ma la nota vitalistica e lo sguardo a tutto tondo sulla società iraniana, dove si coglie molto bene l’intenso amore di Panahi per il suo paese, è prevalente. Le giovani sono allegre e i soldati sono umani, quasi dei fratelli magggiori e alla fine gioiscono insieme. Esemplare, quanto a specificità del linguaggio cinematografico, la scena del tramonto fuori lo stadio: una manciata di minuti che ci scorrono davanti in tempo reale restituendoci, sembra suggerirci, la fiducia nel futuro; un futuro, cioè, verso il quale si vuole guardare fino alla fine, senza cut, finendo anche in offside -rito di passaggio politico, conoscitivo ed esistenziale dal quale ripartire.
Non è così, purtroppo, in Taxi Teheran. In questo film l’allegria cede il passo alla preoccupazione, i toni diventano più grigi, si percepisce che qualcosa è successo.
Nel 2009 Jafar Panahi viene arrestato una prima volta, pochi mesi dopo gli viene negato il visto per Berlino e successivamente arrestato e detenuto per tre mesi. Nel 2010 viene condannato a non poter più continuare il suo lavoro, pena detenzioni infinite.
Va avanti con un film girato dentro casa su se stesso, sulla sua condizione, poi un nuovo film clandestino, che gli varrà l’orso d’argento a Berlino nel 2013.
Taxi Teheran è un film e un documentario girato da solo sul suo Taxi (è diventato il suo lavoro, capiamo), vince l’Orso d’Oro, viene acclamato dalla giuria e visto da centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. Sembra una storia destinata a finire bene, lo speriamo di tutto cuore.
Lo speriamo anche perché pensiamo, soprattutto dal raffronto con il film del 2006, che le parole di Aronofski, presidente della giuria di Berlino, colgano perfettamente nel segno: ”Le restrizioni sono spesso fonte d’ispirazione per un autore perché gli permettono di superare se stesso. Ma a volta le restrizioni possono essere talmente soffocanti da distruggere un progetto e spesso annientano l’anima dell’artista. Invece di lasciarsi distruggere la mente e lo spirito, invece di lasciarsi andare, invece di lasciarsi pervadere dalla collera e dalla frustrazione, Jafar Panahi ha scritto una lettera d’amore per il cinema. Il suo film è colmo d’amore per la sua arte, la sua comunità, il suo paese e il suo pubblico”.
Che dire è vero, il film è proprio questo, anche se la nota tetra della violenza ha lasciato la sua impronta sul film.
Sono diverse le storie che Panahi ha selezionato, montato e mostrato. Nell’ordine: 1) il ladro fascista e reazionario e il confronto con la donna progressista (il taxi è una sorta di taxi collettivo su cui possono salire più persone); 2) la moglie che porta il marito sanguinante all’ospedale e la loro follia testamentaria; 3) il nano, strano e un po’ losco figuro, manovriero nel mondo dello spettacolo; 4) le due sorelle che devono riportare un pesciolino rosso in una particolare fontana, da dove l’avevano preso un anno prima; 5) la nipotina, tremendamente sveglia, che gira cortometraggi e intrattiene rapporti con un bambino povero cercando di fargli restituire una somma presa per strada, caduta ad una coppia di sposi; 6) l’incontro con l’amico; 7) l’incontro con una compagna di lotte e di battaglie.
È un caleidoscopio, o meglio più un puzzle, perché lascia poco al caso e all’allegria sfrontata delle giovani donne di Offside. Si capisce, man mano che il quadro si compone, che l’ arrivo è contrassegnato da una determinazione disperata, non rinviabile, non offuscabile da altre composizioni che adesso non possono trovare spazio, e questo è un peccato, ma è così. Il film è politico, dicevamo.
Il film finisce nel luogo dove si trova la fontana della storia del pesciolino rosso. Jafar si allontana e la telecamera è sfasciata da due agenti della polizia segreta che cercano la memory card. Il buio.
Ecco l’irrompere della violenza, vera, reale, ecco che il senso di soffocamento diventa insopportabile, che la bellezza e la poesia e la liminalità di esseri umani colti durante un momento di transizione sembrano mortificate e sacrificate sull’altare del potere assoluto.
Perché l’Iran è anche tutto questo. E’ cioè potere assoluto che è secondo solo alla Cina nel numero di condanne a morte eseguite. Ma è anche moto di popolo intelligente, sensibile, colto e conscio della sua cultura, i cui molti veli sembrano voler rivelare qualcosa. Speriamo.
un grandissimo Panahi, da veder&consigliare tutticosti!! E ottima la recensione..l’ottava delle settestorie:)..tutte inno al cinema al reale trasfigurato, alla libera espressione, al confronto serioironico serrato. Wivaviva Panahi!!