Un romanzo scritto tra il 1846 e il 1850 dal titolo The String of Pearls: a romance raccontava la vita di un personaggio le cui vicende erano avvolte nel mistero della cronaca nera: un barbiere londinese, la cui bottega si trovava in Fleet Street, si trasforma in killer seriale per arrotondare gli incassi.
Secondo i leggendari avvenimenti infatti Sweeney Todd, questo il nome del temibile assassino, derubava i suoi clienti grazie a una poltrona da barbiere dotata di un meccanismo speciale che sottraeva i soldi alla vittima, e poi faceva scivolare i malcapitati contro il pavimento dello scantinato, causandogli la sicura rottura dell’osso del collo. Per sbarazzarsi dei corpi dei disgraziati clienti Todd pare si facesse aiutare dalla signora Lovett, titolare di un negozio di Meat Pie (pasticci di carne avvolti in soffice pastafrolla), la quale utilizzava le sostanziose riserve di carne dello scantinato per i suoi affamati clienti. Sweeney Todd, insieme alla sua complice, verrà condannato a morte nel 1882, ma l’eco delle sue mostruose imprese, attraverso questo romanzo, è approdato a Broadway nel 1979 ed è diventato un musical firmato da Sthephen Sondheim e Hugh Wheeler. Oggi Tim Burton ne ha fatto, col suo tocco inimitabile, la riduzione cinematografica dell’opera di Sondheim.
Lo Sweeney Todd raccontato da Burton è un Johnny Depp pallido e ombroso a tratti caricaturale, del resto perfettamente in linea con il contesto creativo di Burton, sfuggente a definizioni certe: musical? Horror? Fantasy? Melodramma cinematografico? Cartone animato? Impossibile scegliere una di queste etichette per raccontare la pellicola grottesca, il delirio gotico popolato di fantasmi realizzato da Burton: una fiaba atroce più di “Hansel e Gretel”, messa in scena nel teatro scenografico crudele e claustrofobico realizzato da Dante Ferretti: una Londra tenebrosa e volutamente artificiale, ricostruita in studio e sprofondata nel nero fotografico di Dariusz Wolski. Interiorizzazione architettonica dell’animo di Benjamin Barker – il vero nome del barbiere – uomo felicemente sposato con prole che venne condannato ingiustamente a quindici anni di prigione, e che rientrato a Londra riapre la sua vecchia bottega di barbiere situata sopra un negozio di torte farcite impastate e infornate dalla fedele e protettiva Nellie Lovett (Bonham Carter). Barker è tornato per ritrovare la felicità perduta ma anche e soprattutto per vendicarsi del giudice Turpin (Alan Rickman) e del laido Beadle (un superbo Timothy Spall) che hanno tramato contro di lui per sottrargli la moglie, Lucy (Laura Michelle Kelly), e la figlia Johanna. Tradito da Mrs Lovett la quale, segretamente innamorata di lui, gli mente raccontandogli il suicidio disperato della moglie e la prigionia della figlioletta segregata dal laido Turpin, Barker, ormai definitivamente Todd, scioglie le briglie della rabbia, trasformandosi in atroce assassino. Il primo a sedersi sulla poltrona fatale e a offrire il suo collo alle cure taglienti e definitive di Sweeney Todd è Pirelli (Sacha Baron Cohen, meglio conosciuto dal pubblico come Borat), un collega italiano che ha l’imprudente tentazione di rivelare la vera identità del protagonista. Per liberarsi del corpo, la “strega” Nellie ha l’infernale trovata imprenditoriale che rilancia la sua attività in declino: utilizzare la carne delle vittime per rendere più appetibili i suoi pasticci di carne. Si mette in moto un balletto macabro, una sarabanda di rasoiate e di spruzzi sanguinolenti, di rustici iperproteici e di clienti sazi o sgozzati, una vertiginosa e implacabile discesa nella follia, tra canzoni d’amore e di abbrutimento che, se mette a dura prova lo stomaco degli spettatori suscitando repulsione e orrore, apre anche a spiragli riflessivi, simili a tracce ematiche persistenti, nell’animo dello spettatore.
In primo luogo, per gli appassionati del cinema di Burton impossibile non pensare alla reiterazione di personaggi, al contempo creativi e distruttivi, che trovano in “protesi artificiali” degli alleati all’espressione di un’emotività abissale altrimenti compressa nella dimensione corporea fine a se stessa: se le mani di forbice di Edward sono l’esteriorizzazione simbolica della sua incapacità interiore a toccare, i rasoi di Sweeney Todd sono il prolungamento interiore della vendetta per la perdita delle persone amate. Armi attraverso le quali oggettivare la dissociazione interiore Barker/Todd – come Jekyll e Hyde – per esplorare il male potenzialmente seduto anche nel cuore più puro. In termini storici la vendetta del barbiere di Fleet Street – come personaggio ottocentesco – smaschera le ipocrisie della società vittoriana facendosi metafora di una rivoluzione industriale che, dopo aver trasformato le persone in merce, non ha più nessun’altra alternativa se non quella di divorare se stessa. Dall’avvento della macchina a vapore in poi, in effetti, tutto può essere prodotto in serie, commercializzato e magari fatto a pezzi.
In termini umani la frase delirante cantata dalla coppia Todd-Lovett che riduce la scelta di utilizzare carne umana per i propri pasticci a una semplice trasposizione pratica di ciò che in teoria avviene quotidianamente – il cannibalismo dei forti sui deboli, dei potenti sui disperati – tocca grottescamente, ma altrettanto incisivamente, la sensibilità dello spettatore che può disgustarsi ma non certo annoiarsi, o peggio rilassarsi davanti alla macinazione di membra umane accompagnate da motivi disneyniani e fiabeschi e persino da sorrisi un po’ storti e stralunati che pure Tim Burton sa suscitare. Orrore e ironia. Fiaba macabra e soprattutto musical, ma con dosi di violenza che nulla hanno a che vedere con i cartoni animati e il buonismo cinematografico commerciali. L’uomo è anche questo, sembra dirci con ironia gotica il regista. E certo per lungo tempo non lo dimenticherà chi è uscito dalle sale cinematografiche pallido e turbato come gli attori, ognuno perfettamente calato nel ruolo e deformato dal tocco un po’ folle di Burton. Per Depp, in particolare, è la terza prova accanto all’eccentrico regista, dopo Edward mani di forbice e La fabbrica di cioccolato, tre film, tre maschere, tre grandi prove interpretative. Anche questo film invece di azzerare la performance dell’attore “messo in musica”, libera il suo talento interpretativo: crudele, pericoloso e selvaggio, contribuisce alla realizzazione della “cartonizzazione” cattiva e ironica del famelico “mondo degli adulti”; di coloro in sostanza che abbandonati i panni dell’essere umano, ospitano in sé la Bête Humaine.