Se la vita dei morti è riposta nel ricordo dei vivi John May è il perfetto paladino di tale principio. Un uomo fuori dal mondo, sospeso all’interno di un’esistenza che apparentemente può sembrare grigia e squallida ma che nasconde delle qualità umane non comuni.
È un funzionario comunale designato a contattare i parenti di persone morte in solitudine. Ispeziona la casa del defunto in cerca degli effetti personali e prova a coinvolgere, spesso inutilmente, quelle poche persone reperite a partecipare alla cerimonia funebre.
John adotta le persone morte, se ne fa carico emotivamente. Per lui non sono solo pratiche da schedare in un archivio.Fruga nella loro vita per rintracciare familiari o amici e quando non ci riesce organizza il funerale, scrive l’elogio funebre ed è presente alla sepoltura o alla cremazione di ognuno di loro. Li accompagna, non li lascia soli nell’ultimo saluto; vuole ridargli quella dignità che in vita non hanno mai avuto.
Questo insolito ometto va ben oltre le sue mansioni lavorative. Preserva l’onore dei morti. Ruba le foto dai fascicoli di tutte quelle persone decedute da sole, senza nessuno che li ricordi e le raccoglie con cura in un grande album fotografico che sfoglia ogni sera nel suo anonimo appartamento per dare un senso, una storia a ciascun volto estraneo. John è talmente dentro alla solitudine e alla morte degli altri che ha finito per annientare la sua vita che compare assolutamente insapore ed estremamente solitaria. Un uomo senza passato e senza futuro. Niente amici, niente amori, niente viaggi, niente shopping, nessun divertimento, nessun vizio. Sembra negarsi addirittura il gusto del cibo continuando a nutrirsi esclusivamente di pane tostato e tonno in scatola.
Un giorno viene licenziato, un altro esempio odierno di quanto conti poco la vita di un uomo e con quanta superficialità si possa spazzarla via. In un ultimo atto di devozione, verso il lavoro a cui ha dedicato tutto se stesso, John non vuole andarsene lasciando in sospeso il caso di Billy Stoke. Non ci sarà l’ennesima triste cerimonia senza nessuno. Il paladino di tutti quelli che muoiono da soli parte per l’ultima missione. Decide che riuscirà in ogni modo a trovare qualcuno che sia stato legato all’inquieto Billy Stoke, soprattutto una presunta figlia abbandonata da piccola.
Questa ricerca si trasformerà in un’inaspettata apertura verso il mondo dei vivi e verso l’amore. Pur essendo molto diversi, avviene una strana identificazione tra John e Billy oppure è solo la paura di morire nella solitudine e nell’indifferenza della società a renderci tutti uguali. L’irreprensibile John, come posseduto dall’alcolizzato Stoke, si concederà qualche piccola trasgressione.
Vincitore del premio alla regia nella sezione ‘Orizzonti’ all’ultimo Festival di Venezia, dal tono gelidamente ovattato e minimale Still life è tutto racchiuso nel volto tra il buffo e il malinconico dell’attore protagonista (per la prima volta nella sua carriera) Eddie Marsan che incarna splendidamente questo contemporaneo antieroe, un po’ fiabesco, che vive invisibilmente e silenziosamente ma riesce a ritagliarsi un posto speciale nel mondo. Un piccolo timido alieno con una particolare missione da svolgere.
Si riflette molto laicamente sulla morte, sulla pietas, sulle vite che ogni giorno si spengono nell’ombra, ma soprattutto sull’isolamento, sull’importanza dei contatti umani, sull’annichilimento che ci sovrasta senza mai toccare accenti davvero tragici ma stemperando in un umorismo nero, anche se l’opera di Umberto Pasolini sa bene come far leva sull’emotività dello spettatore.
Come spiega lo stesso regista molto è stato ricostruito rubando dalla strada, osservando la vita degli altri ma anche da esperienze personali.
Una sintassi semplice ispirata allo stile contemplativo di Ozu ma con inquadrature incisive mirate a cogliere dettagli che immediatamente restituiscono un ricordo, un’idea, un’emozione, uno stato di abbandono, un gesto d’amore e di speranza.