Quando la memoria si perde per un Alzheimer precoce di tipo “familiare” – cioè trasmissibile ai propri figli con una percentuale del 50%. Quando tutto è ridotto al momento presente, all’istante, al gesto che si compie senza più sapere il perché. Quando lo spazio diventa tutto uguale, tutto ripetitivo, sfocato in uno spaventoso caleidoscopio senza più giudizio, e quando il tempo diventa un punto nero senza più il passato a orientare e condizionare né più il futuro a dar senso a sogni e aspettative. Quando non sai più qual è il tuo lavoro e chi sono i tuo cari perché il sapere, tutto ciò che si è costruito in una vita, non esiste più, spazzato via nel giro di pochi mesi da ciò che non controlli e quindi non ti aspetti – il contrario di un progetto.
Cosa rimane? Cosa rimane di una donna perduta dentro un corpo malato, un corpo che agisce inesorabilmente contro di lei? Cosa rimane di una donna che ha dimenticato la sua storia e la genealogia degli affetti?
Rimane innanzitutto il corpo dell’attore – del performer – dove la performance di Julianne Moore, la cui misura, film dopo film, rasenta sempre più la perfezione, ci dice del corpo che è fatto della mente che crea il linguaggio (insegna Filosofia del linguaggio all’università, non a caso) e che controlla, e ci dice di un corpo fatto di un involucro fragile e pesante, specie di gabbia e carcere contro cui lottare, grumo di articolazioni e nervi e carne da nutrire e ripulire e accudire fino alla fine – ci è toccato in sorte di ardere e di consumarci in fretta, senza neanche un’unità di misura certa attorno a cui avvolgere, più o meno sottilmente, più o meno ruvidamente, le nostre aspettative. Rimane, poi, il ciò che accade, dove la differenza con la eterodeterminazione e la prevedibilità è il sentimento di irriducibilità dell’uomo a soggiacere al tempo – il presente è anche gioia, il momento senza più la forma del peso del passato e del progetto del futuro è puro istante, respiro, attraversamento della vita. Rimane la poesia e l’amore, la speciale comunicazione, cioè, che una madre non più perfetta (né perfettibile) e una figlia sformata come può esserlo chi sceglie l’arte e il teatro scritto sull’acqua quale alveo ideale a mettere insieme esercizio di scrittura e assoluta spontaneità, conducono sul limite del (l’in)dicibile e del fuggitivo, dell’esserci ancora e dello spazio infinito e riflesso del cosmo, perché la poesia e la cura contengono anche una nuova nominazione del mondo e del corpo che è altresì evocazione e ricordo (la memoria del corpo) dell’origine.
Rimane – e si tenderà a dimenticarlo – come per ospitare l’altro dentro di sé si debba necessariamente sottrarre un po’ di realtà, si debba, cioè, fare il vuoto necessario a far entrare e sostenere la sua fragilità e anche la sua forza – ciò che fa la figlia minore, interpretata con carisma da Kristen Stewart (molto brava anche in Sils Maria, l’ultimo film di Olivier Assayas, dove si cimenta in un altro intenso confronto generazionale con un’altra attrice, coetanea alla Moore, colma di coraggio, Juliette Binoche). Rimane, infine, veicolato con pregnanza dalle ultime immagini, l’istante che incide e illumina il continuum dell’esistenza laddove finisce anche per contenerne il riflesso disegnato dalla linea del tempo.