Se la messinscena è fatta di racconto, temi, segni e sensi possibili, Star wars, con i suoi quasi trent’anni di vita, ha in un certo senso piegato il genere della fantascienza, potenzialmente oscuro, ai dettami del cinema della trasparenza, dove ogni cosa, anche la più inverosimile, finisce per sembrare vera, credibile, allettante e –ciliegina- naturale. Si sa, infatti, come al dire di una manifestazione artistica che “sembra naturale” non corrisponda in effetti un sicuro complimento, tanto più se la natura viene messa all’interno di un ordine calato dall’alto. Se poi ci spostiamo di poco è azzardiamo una parola come naturalizzazione (della potenzialità disturbante e distopica del genere fantascienza) il risultato diventa per forza di cose infelice. Naturalizzare la potenza del negativo (potenza complice in quasi tutti i film che parlano di spazio e di futuro), o farne una dicotomica macchietta, ché la parodia è modalità tutta diversa, risponde ad esigenze di rassicurazione e evasione tipiche di chi vuol vendere qualcosa –il caro vecchio rabbonitore. Negativo poi non è solo il contrario di positivo ma è anche il sinonimo di pellicola -a sua volta negativo di fotografia- oggi superata dal digitale, nel bene e nel male, una tecnica che ha consentito il perfezionamento del cinema trasparente rendendo certi film ancora più scorrevoli, patinati, lisci, normali. La trasparenza può far sentire lo spettatore troppo a casa, insomma, con l’aggravante di fargli ignorare il fatto di esserlo -e con buona pace dell’altrove, sempre presente in un film, come viaggio in cui prendersi dei rischi (di trasformarsi e tornare diverso). Ma il cinema trasparente, diciamo il cinema hollywodiano per eccellenza, ci ha anche regalato momenti d’oro, con ritmi oliati alla perfezione per script magnifici e gag irresistibili, oppure messo al servizio di temi difficili in cui la comprensione passa molto meglio attraverso le maglie di una esposizione adamantina, e ancora c’è la trasparenza come inquadratura che ingabbia le pulsioni e i desideri dei protagonisti (e dello spettatore) per portarli fino al limite estremo e quindi farli deflagare. E poi sicuramente tante altre eccezioni e ipotesi, più o meno autoriali, che probabilmente equilibrerebbero quanto ho tentato fin qui di argomentare spingendomi, dunque, a rivedere, e magari abbandonare, ordini e categorizzazioni a favore, più che altro, di un rinvenire tracce e riflessi di tendenze in divenire. “L’ipotesi ottimista è che fra lo spettacolo e la mancanza di immagini ci sia posto per un’arte di vivere con le immagini, esigendo al contempo che esse siano umanamente comprensibili (che si sappia meglio ciò che sono, chi le produce e come, qual è il loro potere, in che modo esse retroagiscono sul mondo) e conservino nel proprio fondo quel resto inumano, stupefacente, estremo. Che si possa convivere anche con questo, come si dovrebbe fare con gli animali, senza addomesticarli del tutto. Il sacro?”, scriveva Serge Daney, sul suo diario, il 27 dicembre 1989, prima di morire meno di due anni dopo, a soli quarantotto anni. Un critico libero e irriducibile alle categorie che ha indagato a fondo le direzioni e le superfici attraverso cui la forza prende forma. E dunque arriviamo a Star Wars: il risveglio della forza. Settima avventura della space-opera più longeva e redditizia di sempre. Insomma questo film, forzando un po’ le cose e al netto di un certo coinvolgimento (e anche sentimentalismo) dovuto all’esser stata adolescente negli anni ‘80, mi ha fatto trovare questo. L’ultimo Guerre stellari –d’ora in poi sempre e soltanto, molto omogeneicamente!, Star wars- nella sua affermazione del bene contro il male sembra veicolare una sorta di purezza (dalle scorie del Tempo e della Storia, in qualche modo) al servizio di un’autorappresentazione che vuole a tutti i costi farsi mitologia, in tal modo finendo per eclissare il mondo che cercava di conoscere -se in una space-opera il mondo scompare allora cosa resta? Domanda non retorica perché oramai le risposte che si danno in proposito sono molto contrastanti, tanto che in Interstellar del mondo se ne fa felicemente a meno. Per altro verso, in Star Wars il desiderio si vede mortificato o da eccesso di vitalismo, nei protagonisti giovani, o di nostalgia, in quelli agée. Tutto infatti accade troppo velocemente. La realtà non “appare” neanche un secondo (e nonostante effetti speciali anch’essi d’antan, o forse volutamente vintage). In un percorso di formazione/addestramento che vede ogni nodo narrativo risolversi nei tempi accelerati di uno psicodramma 2.0. E pur evocando titanici conflitti shakespeariani, come nella frettolosissima scena sul ponte tra Kilo Ren e Han Solo, o istanze femministe, anche se la protagonista sembra più che altro aver fatto proprio il modello maschile di riferimento. Insomma i comportamenti vengono ridotti a segni effimeri ma all’interno di una visione teleologica granitica. Nostalgia compresa. Una contraddizione che il bel Gravity sceglie invece di non occultare, a favore di una problematizzazione anzitutto delle stesse immagini, che è dunque anche farsi metafora della tendenza all’entropia e al caos dei tempi in cui viviamo (“che si sappia meglio ciò che sono, chi le produce e come, qual è il loro potere, in che modo esse retroagiscono sul mondo”). Gravity, appunto, non rende morbido il montaggio che anzi serve a mostrare lo scatenamento e la deriva della forza in assenza di gravità (e in assenza di ordini e fini del mondo), dove più che altro conta ormai la capacità o meno di sopravvivere (il negativo del vitalismo). I comportamenti in assenza di gravità (ma ovviamente non si sta parlando solo di spazio) sono determinati da uno spazio alla deriva che quindi finisce per determinare anche il tempo. Nelle immagini di Gravity il desiderio non implode nella facile opposizione bene-male (e nelle tante da essa derivate), non è insomma voglia di armonia e verità ma esperienza della dislocazione e incoerenza ontologica del soggetto, al netto di una narrazione verbale apparentemente più rassicurante (ma per fortuna ci sono pochissime battute – se Gravity fosse stato un film muto sarebbe stato la space-opera perfetta…). Star wars tenta poi di conciliare anche la visione occidentale dell’affermazione del bene come lotta (blandamente dialettica) contro il male e quella orientale della forza come flusso spirituale e vitale che permea il cosmo e gli uomini che tramite l’autodisciplina sanno farsene portatori. In entrambi i casi ad affermarsi è una narrazione del bene come verità che sconfigge il caso e la contraddizione (e il senso estremo, non addomesticabile, del sacro?). Diciamo che la forza del negativo di Kilo Ren a cospetto anche solo di quella di Walt, in Breaking Bad, sembra quella di un pivello capriccioso davanti a un gigante dolente. Detto questo mi sono divertita abbastanza. A ciò forse aiutando la parodia esplicita cucita letteralmente addosso a Han Solo e Leia, che è riuscita a smuovere anche la malinconia di mio padre, e poi il viaggio tra le rovine che appare in una delle prime scene, in cui pezzi di robot, protagonisti di episodi precedenti, spuntano dalla sabbia del deserto, neanche fossimo davanti a La resurrezione della carne del Signorelli…

One Reply to “Star wars o la forza 2.0”

  1. Anch’io mi sono divertito, e anche un po’ più di abbastanza; anch’io complice in una visione collettiva famigliare, in veste di padre, nel mio caso. Che sia questa voglia di attraversare il tempo intergenerazionale, oltre che quello legato allo spazio, uno dei motivi che attraggono legioni di spettatori? Può darsi.
    Quello che tu dici, che “Star wars- nella sua affermazione del bene contro il male sembra veicolare una sorta di purezza (dalle scorie del Tempo e della Storia, in qualche modo) al servizio di un’autorappresentazione che vuole a tutti i costi farsi mitologia”, sembra anche offrire una sponda a questa percezione, sicuramente eccessivamente consolatoria. Ma è vero che il genere fantascienza è potenzialmente oscuro, o meglio, che è il non conosciuto, ciò che è al di fuori dell’esperienza, a fornire i principali motivi di attrazione, la curiosità e il desiderio, la voglia di ricominciare. Anche le tue riflessioni sulla trasparenza, mi sembra, svolgono lo stesso discorso e devo dire che sono rimasto colpito dalla citazione di Serge Daney, che “ci sia posto per un’arte di vivere con le immagini, esigendo al contempo che esse siano umanamente comprensibili …. e conservino nel proprio fondo quel resto inumano, stupefacente, estremo”.

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