La storia raccontata da Sean Penn in Into the Wild non può non ricordare la storia di Timothy Treadwell, l’uomo che voleva diventare un orso, che Werner Herzog ha raccontato nel suo docudrama Grizzly man. Entrambi hanno per protagonisti un uomo che rincorre l’idea di vivere allo stato brado, nel fitto della natura selvaggia e poco ospitale dell’Alaska, e che finisce per pagare questa scelta con la morte. In entrambi i casi si raccontano delle storie vere, di persone realmente vissute: solo che nel caso di Grizzly man questa persona è in scena, non c’è un attore che lo interpreta, anzi, è lui stesso il regista delle riprese che lo riguardano; nel caso di Into the Wild, invece, Chris McCandless, il ragazzo che ha finito per morire avvelenato dalle bacche in Alaska nel 1992, è interpretato da un attore, Emile Hirsch.
Grizzly man è l’opera di un regista europeo che racconta in maniera lucida, disincantata e complessa la vicenda particolare di un uomo che ha messo in scena la propria autodistruzione, il proprio autodissolvimento nel mondo animale. E lo fa con rigore, animato dalla passione della conoscenza, ma senza identificarsi con il suo protagonista, anzi assumendo via via che il film procede un atteggiamento decisamente critico nei suoi confronti. Herzog ha realizzato un documentario, ha ricostruito in maniera personale, autoriale, una storia reale con le riprese che lo stesso protagonista aveva girato su se stesso nella sua folle avventura nella terra degli orsi. Herzog in un certo senso “si è limitato” a riorganizzare, in maniera magistrale, questi materiali scottanti – perché veri e anche perché tragici dal momento in cui sappiamo dall’inizio che l’uomo che vediamo è morto divorato da un oso.
Into the Wild è tutt’altra cosa: è un film-film di fiction di un regista che si identifica profondamente col suo personaggio, che ne sposa l’idealismo, lo slancio ribelle e le scelte anticonformiste anche se non tace il dolore e gli strappi che queste scelte comportano. Into the wild è un inno alla vita selvaggia nonostante anche in questo caso il protagonista finisca col pagare con la morte la sua scelta radicale. Into the wild affonda le sue radici nella controcultura americana degli anni ‘70, anche se racconta la storia di un ragazzo realmente esistito che nei ‘70 era solo un bambino. Sean Penn, ed anche Eddie Veber, che ha scritto musica e testi delle canzoni del film, hanno dichiarato entrambi di sentirsi profondamente complici di questo ragazzo che ha deciso di assaporare la vita fino in fondo, costi quel che costi, che ha scelto l’essere anziché l’avere in un paese in cui sei ciò che possiedi (e tanto più sei quanto più possiedi), che ha rifiutato di piegarsi anche al più piccolo dei compromessi che la convivenza sociale richiede.
Al di là delle differenza di genere, quella che ci interessa è la diversa visione della Natura e il diverso approccio nel filmarla con i quali i due cineasti hanno raccontato storie assai simili. Quella di Herzog è una natura bella ma pericolosa, imprevedibile, meccanicamente crudele (come dice lo stesso Herzog nel film a proposito dello sguardo dell’orso che sta per divorare Timothy), dalla quale occorre difendersi o almeno imparare a tenere le distanze – “sono centinaia di anni che conviviamo pacificamente con gli orsi: ognuno sta nel suo territorio” dice un eschimese nel film. Herzog afferma “Io credo che il denominatore comune dell’universo non sia l’armonia, ma caos, conflitto e morte.” Il lungo, straordinario piano sequenza del combattimento tra orsi che il protagonista riprende, impressionante per grandiosità e violenza, è assai eloquente per lo spettatore ma non abbastanza per Timothy, che sembra non trarne alcuna lezione e che reagisce intimamente dispiacendosi ma non cominciando a temere per la sua incolumità.
Nel film di Herzog sono molti i momenti di contemplazione della natura, in cui la telecamera si ferma in ascolto della stessa, quasi sempre in piano sequenza. Naturalmente sono riprese che ha realizzato Timothy Treadwell, ma Herzog ha scelto di inserirle nel montato e di lasciarle assaporare nella loro durata e con l’audio originale allo spettatore, selezionandole all’interno di circa 100 ore di materiale. Scene come quella in cui il protagonista gioca in simbiosi con due volpi, sono straordinarie perché ci restituiscono il comportamento animale, così come quello del temerario protagonista, nella loro irriducibile enigmaticità e talvolta nella loro poesia. E’ come se fossimo lì, nell’ hic et nunc della ripresa, testimoni indiscreti di un’ intimità quasi scandalosa tra un uomo e gli animali, verso i quali prova un attaccamento simbiotico, un’attrazione tanto irresistibile da somigliare pericolosamente a un impulso autodistruttivo. Quello che Herzog finisce per mettere in evidenza è che la Natura, così come gli animali che ne sono integralmente parte, è altra rispetto all’uomo, funziona in modo completamente differente dai consessi umani, e prosegue inesorabile il suo ciclo, indifferente agli affanni degli uomini, talvolta (casualmente) spietata. Questo naturalmente non toglie nulla alla sua bellezza e alla sua solenne grandiosità, e infatti Herzog-Treadwell ce la mostrano, ce la fanno sentire.
Con Into the Wild il discorso è completamente diverso. Nel film di Sean Penn siamo in presenza di una natura idealizzata, rousseauiana, sorgente di vita e di energia primordiale, anche se finisce anch’essa per sopraffare chi non la rispetta. Ma Penn non la tematizza, non la mostra, la lascia come sfondo alle avventure di Chris che, infatti, rimane un ragazzo ribelle che aspira alla libertà e alla fusione con la natura ma da uomo, non aspira a “diventare natura” . Chris rifiuta la società ma non disprezza gli uomini, e forse se stesso, come invece sembra fare Timothy. Non c’è l’impatto, il fronteggiarsi tra Uomo e Natura – se non forse, nella scena dell’uccisione dell’alce.
Ci sono enormi differenze stilistiche e anche una diversa statura di autori, ovviamente, fra il maestro Werner Herzog e l’onesto Sean Penn ma lo stile è tutt’uno con l’essenza, col messaggio, per questo lo indaghiamo. In Into the Wild non c’è praticamente un solo momento in cui taccia la musica di accompagnamento, in cui si fermi il montaggio e si lasci parlare l’esistente, in cui il film si fermi ad ascoltare il vento, il silenzio o i mille rumori poco familiari di una foresta. Al centro c’è sempre Chris, mai la natura selvaggia che infatti non ha voce, non viene mai veramente rappresentata, come invece Treadwell-Herzog, che hanno fatto della Natura quasi un personaggio, l’antagonista del film. Si può dire che il film di Penn non vive mai davvero nella foresta con Chris, non ci fa sentire mai cosa vuol dire dormire di notte al buio da soli nella foresta anziché nel
la propria cameretta di bravo ragazzo, non ci descrive la simbiosi di Chris, la dà in qualche modo per scontata, in questo modo sottraendoci però un elemento fondamentale di comprensione delle sue motivazioni profonde. Sean Penn non si avventura mai nel sentimento estatico, oceanico o nei turbamenti che provoca un contatto profondo con la wilderness, rimane in un orizzonte umano. La natura rimane un contesto, a tratti anche cartolinesco, e in questo risiede, a parere di chi scrive, la debolezza del suo film.
Forse, molto sommariamente, si potrebbe concludere che quella di Sean Penn, e del suo personaggio, è la visione di un credente, di qualcuno per il quale esiste una dimensione trascendente in grado di riscattare l’insensatezza del mondo, o perlomeno di qualcuno che questa dimensione la cerca. La natura in questo senso è un tramite, serve ad avvicinare a Dio, è per questo che Chris McCandless, sulle orme di Tolstoj, di Emerson, di Thoreau, la cerca. Ed è per questo, forse, che non è protagonista del film. Quella di Werner Herzog-Treadwell, invece, è una visione fondamentalmente atea, leopardiana, terrena. Il problema di Dio non si pone. E allora i paesaggi, gli animali riacquistano centralità, risplendono nel loro irriducibile mistero, nella loro funzione di limite invalicabile all’ambizione umana di dominio.
bel pezzo. Corro a vedermi Grizzly man, anche sulla scia dell’altro docu di Herzog Il diamante bianco, altra magnifica indagine su possibilità e limiti.
Fantastico Giovanna!!!
Le tue parole mi fanno pensare alla ricerca continua
dell’uomo…attraverso Dio, la natura…di risposte.
Talvolta, in questa ricerca, si perde.
Forse quando dimentica l’umiltà di riconoscere i propri limiti.
Cara Giovanna, hai colto nel segno: quello che manca drammaticamente nel film di Penn, retorico quando dirige paro paro come quando recita, è uno, fosse solo un istante di estasi, di rivelazione, di rapimento panteista. Un solo momento in cui stacchi musica, ralenti, carrelli aerei stile Signore degli anelli per fare entrare nel respiro di un mondo “altro”. Ed è ciò che decreta il suo fallimento. Se anche, come dici nella tua bella lettura, fosse un “credente”, l’errore imperdonabile è di dare per scontata, “data”, appunto, fin dall’inizio, questa fascinazione per l’ignoto, per l’assoluto naturale, preso com‘è dal confronto con la famiglia cattiva, con la società fagocitante e compagnia bella. Il confronto con Herzog non può che essere schiacciante, basti vedere, a parte il tematicamente affine “Grizzly”, anche lo straordinario “White Diamond”, dove viene ancor meglio mostrato/sottratto, il confronto col mistero della Natura, la sua sacra inattingibilità. Ma non scordiamoci l’altra parola definitiva sul tema, negli ultimi anni: “The New World” di Malick. Nessuna certezza fricchettona, solo sublime sperdimento.
fa molto schifo
Mi scusi la pignoleria, ma il musicista che ha composto la magnifica colonna sonora del film si Sean Penn è Eddie Vedder e non Veber. Per il resto, è una documentazione interessante, così come la scelta di richiamare anche l’esperienza di T.Treadwell. Sono state persone che hanno lasciato il segno, sebbene le loro vite abbiano avuto un tragico epilogo.