Parlando di cinema fatto da donne sulle donne non si può non pensare ad una regista come Alina Marazzi, che ha fatto coincidere il suo percorso personale con quello artistico, illustrando l’idea di fondo che solo nei destini privati si possono misurare i cambiamenti della vita pubblica e sociale.
Vogliamo anche le rose (2008) sono diari privati letti su immagini di repertorio, sono ricordi personali montati sulla memoria collettiva. Sono un altro capitolo appassionante di quella particolare storia dell’animo femminile che Alina Marazzi va componendo da quando, con Un’ora sola ti vorrei, ha deciso di ripercorrere la dolorosa storia della madre suicida attraverso i filmati di famiglia.
Non ha risposte, Alina Marazzi, ma è animata da un’instancabile spirito da ricercatrice, dalla speranza di catturare ciò che è ineffabile, inattingibile per eccellenza: il mistero di una vita, ciò che si nasconde dietro i volti e i gesti delle persone, delle donne in particolare.
Alina Marazzi sembra avere solo un punto di partenza: le donne hanno sofferto molto, molte soffrono ancora e in maniera più segreta e nascosta degli uomini perché una gran parte del loro mondo interiore, non avendo modo di esprimersi socialmente, si ritorce loro contro, come un boomerang. Il suo intento di autrice, allora, sembra essere quello di restituire loro la voce, farle parlare, finalmente. Comincia da sua madre, Alina, in quello splendido lavoro di autoanalisi che è Un’ora sola ti vorrei, e questo rende tutto il suo lavoro più interessante, più vero, più autoriale – nel senso in cui autore è chi, “posseduto” da un’idea che non può fare a meno di comunicare, trasforma la propria opera in una testimonianza dei vari stadi di quell’ossessione, compresa la sua eventuale risoluzione. Naturalmente queste opere “teraupeutiche” per l’autore sono valide solo se riescono, attraverso il suo svelamento autobiografico, a dare voce anche ad altri, se toccano corde universali dell’animo umano, se riescono a trasformarsi in uno specchio per gli spettatori. Con Un’ora sola ti vorrei Alina Marazzi ci è riuscita pienamente, ha trasformato il massimo del personale nel massimo dell’universale. Quelle immagini di una donna giovane bella e infelice, il cui mistero Alina cerca invano di dipanare; il suo sforzo di ricostruire per la madre un’identità, una biografia diversa, più umana, rispetto a quella insopportabilmente limitata delle cartelle psichiatriche, restano nell’anima, parlano a quella parte di noi tutti che inevitabilmente rimane senza voce. Con questo film Alina Marrazzi dà a sua madre una seconda chance.
Vogliamo anche le rose è una continuazione di questa prima opera. Alina prosegue nella sua “missione” di dare voce ad altre donne, questa volta a lei sconosciute – ma che evidentemente sente vicine – che sono state giovani negli anni ‘70 (la madre invece all’inizio degli anni ’60). Sceglie tre storie, diverse, ma accomunate da una certa sofferenza, da un certo male di vivere (ma si sa che i diari raccolgono principalmente i momenti dolorosi) e le srotola su immagini di archivio del periodo delle lotte per l’emancipazione femminile in Italia. La lettura dei diari restituisce il rovello interiore, aggiunge un elemento letterario alle immagini ottenendo il risultato di SMONTARLE, nel senso in cui incrina l’automatismo con cui abitualmente associamo immagini trionfanti e combattive di piazze in lotta alla parola FEMMINISMO. Il vissuto personale cozza con le immagini perché narra ciò che non si vede: la lacerazione interiore con cui le donne hanno pagato (e pagano ancora?) il loro sforzo di emancipazione e di conquista della libertà.
La prima donna non riesce a vivere davvero, a relazionarsi, si sente un cristallo infrangibile. La seconda ritiene di non avere alternative rispetto a quella di abortire (clandestinamente) il figlio concepito in notti d’amore vissute come illegittime. La terza è una militante e si comporta come una donna emancipata ma paradossalmente non riesce a sentire quel piacere sessuale-sentimentale per il diritto al quale tanto si batte con le sue compagne. Nel complesso, nonostante il montaggio rapido, fluido, esteticoestatico che ammalia e seduce, il tono di fondo è amaro. Quanta strada c’è ancora da fare per vivere bene gli indubbi progressi verso la parità? Quanto tempo ci vorrà per metabolizzarli, digerirli, assimilarli a livello interiore, psicologico?
Il film ci lascia alla fine degli anni ‘70. E dopo? Sono migliorate le cose, dopo? Alina ci lascia con questa domanda senza risposta. Aspettiamo il prossimo capitolo della genealogia femminile. Forse, chissà, la prossima volta potrà parlarci direttamente di una donna che è stata giovane negli anni ’80, di una come lei.
se ineffabile vuol dire anche non riuscire a trovare i mezzi adeguati per esprimere quello che si sente e desidera allora sono d’accordo con la formula, altrimenti sono più propensa a considerare la ricerca dell’autrice come un viaggio profondo nel tempo finito e determinato (il proprio e quello collettivo, significativo è il fatto di usare materiale proveniente da materiali di repertorio privati, come il super8, e pubblici, come quelli presi dalle Teche Rai e dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio) per capire le ragioni di alcune scelte o, meglio, non scelte, le quali poggiano comunque su basi materiali abbastanza precise, condizioni ambientali che la società tende abitualmente a mistificare e normalizzare. Ma forse non è lontano da quello che scrivi anche tu è la mia è solo allergia patologica al mistero!