Già dal titolo ci fronteggia una provocatoria citazione-evocazione magari involontaria, quella del ‘Procès de Gilles de Rais’ di Bataille, testo disturbante quanto pochi altri (‘Là-bas’ di Huysmans forse pure – alla vita di Gilles/Jeanne dedicato, vita essa inframmezzata alla vicenda narrata, come solo in pari potenza Bulgakov fece con l’Ha-Nozri nel ‘Master i M.’).

 

E un ‘dramma giudiziario’ che riassume temi abissalmente profondi noi ci troviamo a guardare, fino alla fine, che ci lascia percossi-attoniti e non riconciliati ma, probabilmente, a stento illuminati dal fioco bagliore che dal fondo dell’essere umano balùgina.

 

L’ortodossia ebraica, il formalismo giuridico rituale, la psicopatologia dei rapporti familiari individuali e sociali viene con stile piano rigoroso notomizzata in ogni sfumatura, recitata a livelli di tale pervasiva immobile dinamicità da far gridare (nel silenzio perfetto dell’animo dello spettatore) al miracolo notevolissimo, quello che il Kurosawa di ‘Vivere’ anche più di ‘Rashomon’ consente di proclamare al mondo del Cinema e delle Umane Lettere.

 

Non è la corte giudiziaria americana di ‘K. vs. K.’ che si vede riprodotta – anche se esso schema di rapporti e composizione ‘efficiente’ dei conflitti viene esplicitamente richiamato da una urlante protagonista V. nell’unica scena scomposta e dissonante del film.

 

Sono le ‘logiche giudiziarie’ imperscutabili del ‘Prozess’ di K. (e dei K.) che sovvengono, dietro la bonaria ‘(in)sensib(i)le’ autorevole gestione dell’Egregio Rabbino’ Solomon, che i giudici rabbinici ‘a latere’ ricordano essere in possesso di tale sapienza equilibrio rettitudine da poter sciogliere nodi e casi assai più complessi di quello (lì) presente (!? :  sia permesso dubitarne, perché solo Salomone ‘ipse’ poteva minacciare di squartare dirimendo lasciando invece poi intatte le carni e i cervelli).

 

Il tempo cronologico pare immobile nonostante scorra tra i quadri sempre ritornanti alla medesima sala spoglia e angusta, di rinvio plurimensile in rinvio, nel trascinarsi degli anni sulla vicenda personalissima ma emblematica dei personaggi, sulla società ortodossa ordinata richiamata ‘in absentia’ dai vivaci – singolari ma corali – ‘siparietti’ dei testi chiamati a deporre in aula, dai silenzi non meno che dalle perorazioni e dagli sfoghi degli stessi patrocinanti e giudici presenti.

 

Il tempo atmosferico rompe le pause in sottofondo solo quando batte sui vetri con le dita della pioggia che scroscia fuori; fuori dalla sala del tribunale rabbinico, che prende luce solo dal neon e dalla livida perplessità che i coniugi divorzianti si scambiano negli sguardi reciproci o vòlti verso la Corte o fissi nel vuoto dell’amarezza.

 

Non direi sia opportuno operare ricostruzioni della trama del Divorzio, avvincente monocorde serrata quanto le declamazioni degli attori, rivestite ora di retorico formalismo ora di popolare bonomìa, o calorosa partecipazione (nel senso suggerito di partigiana azione a favore di una più che d’altra parte).

 

Soprattutto nei film che si vorrebbe descrivere nei dettagli perché hanno lasciato durevole impressione si rischia di spezzare l’incanto del vedere e del sentire che ciascuno spettatore si crea nel buio di una (meglio se semivuota) sala; fedele questo testo resti al dettame principale della ‘poetica’ di chi scrive : enunciare senza disvelare, descrivere senza connotare per quanto possibile, per non togliere al singolo il piacere-ricerca di ricavare suggestioni sempre individuali, pur sempre filtrate dal vissuto e/o dal pensato; stimolare sempre e comunque alla Visione.

 

Assolutamente però strepitoso il coup de théâtredei due patrocinanti deuteragenti in rapporto a V. e all’Egregio Rabbino Presidente, in un quanto mai (in)opportuno squarciamento della forma del rito giudiziario-religioso a beneficio di un destabilizzante quanto vivificante raggio di calore sentimentale, mai forse prima di allora riconosciuto, persino nell’intimo di alcuni.

 

Da sottolineare tuttavia la misurata spesso impietrita talvolta naturale recitazione dei personaggi (tutti i) principali : i tre giudici, il patrocinante di Lei-V, il RabbiShimon-patrocinante di lui-uomo giusto e corretto, Viviane e Elisha tanto severi quanto raccolti nel loro dolore-disprezzo-amore.

 

La famiglia sottoposta ai molteplici ortodossi interdetti soffoca più di quanto non assecondi i talenti di V, esasperata dalla ipostatizzazione del precetto quanto il marito lo è – al pari di lei – dal rifiuto del contatto – tra le anime prima e non solo che tra i corpi.

 

Mantenersi giusti e osservanti e insieme gretti e discordi, o liberi in ispirito ma purtroppo vincolati all’obbedienza e al rispetto dell’altro per come lui/lei si vede in quanto essere singolo e sociale : è tutto ciò possibile? E’ raggiungibile da un umano di media intelligenza emotiva o affettiva – anche senza considerarne la fede in un dio, una gerarchia organizzativa, un sistemi di principi/precetti – un equilibrio di tale fatta (che sia per anni – anzi vite vissute– sostenibile)?

 

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Ai posteri(ori) lettori-spettatori una veritiera sentenza, molto più che ardua invero.

 

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