Un Festival di Pesaro nel nome di Comencini e del nuovo cinema italo-americano. Questi i due aspetti significativi della 43esima edizione che inizia il 24 giugno e termina il 2 luglio. Abbiamo incontrato Giovanni Spagnoletti, direttore del Festival per chiedergli cosa caratterizzerà il programma di quest’anno.
Si riprende il discorso sul métissage perché si parla del cinema italo-americano. Ma anche di Comencini, uno dei grandi registi del cinema italiano, ampiamente misconosciuto rispetto poi alla fama dei suoi film. Probabilmente la gente conosce più i film che il nome del regista, penso a Lo scopone scientifico a Marcellino pane e vino, Proibito rubare. L’aver organizzato una retrospettiva a pochi mesi di distanza dalla scomparsa, avendola però pensata prima che lui venisse meno, è uno dei meriti di questo festival. Pesaro ricorderà il cineasta con una tavola rotonda (ndr il 30 giugno), due libri e un ciclo di 28 film. Altrettanto importante è il discorso sul cinema italoamericano. Sono oramai trent’anni, dai tempi della prima generazione, dei vari Coppola, Scorsese, De Palma, Ferrara, Tarantino, che il cinema italoamericano è un faro di qualità dentro quello statunitense.
Quello del cinema al femminile è un altro filo da seguire di quest’edizione?
Più che una scelta le cose sono andate in questo modo: nella selezione del concorso alla fine abbiamo visto che i film che ci piacevano di più, cinque su otto, erano realizzati da donne, e di tante parti del mondo. Da Una novia errante dall’Argentina Ana Katz, a The lighthouse della russo-armena Maria Saakyan, o anche Anxiety dalla Malesia di Yasmmin Ahmad. E per tornare agli italo-americani saranno presenti a Pesaro con i loro film Nancy Savoca e Marylou Bongiorno, di quest’ultima presenteremo quasi l’intera filmografia. Tutto ciò fa sì che quest’anno abbiamo una felice presenza femminile dentro al festival. E questo ci autorizza a pensare che il cinema al femminile in questo momento abbia un forte riscontro produttivo.
Che differenza portano gli italo-americani che avete selezionato rispetto a quelli degli anni Settanta?
È cambiata nella società americana e nell’immaginario la figura stessa dell’italo-americano. Quando Coppola gira Il Padrino siamo negli anni Settanta, in un momento in cui si riprende la tradizione del gangster film, della mafia… Oggi il film italoamericano mette accenti diversi anche dovuti al fatto che la componente etnica nella società americana ha assunto un ruolo completamente diverso da quello di trenta anni fa. Quindi pochi padrini e molta famiglia, problemi di lavoro, tradizioni, e una nuova voglia di tornare alle radici che caratterizza questa nuova ondata. Partono anche loro da esperienze autobiografiche, solo che l’esperienza della Little Italy di Scorsese, come presentata in Mean Streets, non esiste più. Non ci sono più le little italy e gli italiani hanno assunto un ruolo differente nella società statunitense.
Sono autori che suscitano meno interesse rispetto a quelli del passato?
Probabilmente il cinema sta cambiando in maniera radicale, lo indicano le nuove tecnologie, la forbice fra il cinema della realtà e il cinema di finzione che in questo momento è molto ampia, quello fatto in digitale leggero o quello realizzato in digitale pesante. Diciamo che questi esempi di film italo-americani, a partire dagli anni Novanta, dimostrano un alto tasso di autobiografismo, solo che appunto l’esperienza non è più quella della prima o seconda generazione di immigrati, ma invece di persone che ritornano coscientemente e con orgoglio a ripensare la loro tradizione europea a confronto col cinema standardizzato di Hollywood. La maggior parte dei film sono delle produzioni indipendenti, d’altronde le produzioni indipendenti sono sempre state un momento fondante del cinema di Pesaro a partire dagli anni Sessanta.
Pesaro resta una roccaforte della cinefilia?
Ovviamente il passato è passato e il futuro è un’altra cosa. Uno non può sempre tornare nostalgicamente a pensare al cinema fatto in 35 mm; deve vedere quello che oggi si sta compiendo: dai videofonini di cui mostriamo una rassegna nella sala video,a tante altre esperienze. Un festival rimane fedele alle proprie tradizioni nella misura in cui non cerca di cambiare look o di spettacolarizzarsi o di assumere modelli dominanti, deve invece rimanere fedele alle proprio origini e al tempo stesso vedere che il panorama cinematografico internazionale è completamente mutato.
Tornano anche quest’anno le proiezioni in piazza?
Da quando è iniziata la mia direzione nel 2000 ho pensato di dare una forma di presenza che non sia solo quella della cinefilia tradizionale, che per di più è in via di lenta estinzione, ma quella di mostrare i film come vengono fatti oggi a gente che non oserebbe entrare nelle sale istituzionali del festival. Ho cercato di attivare una sinergia maggiore anche col pubblico studentesco e di giovani. Sempre tenendo presente che le esperienze passate sono sempre vitali come dimostra la personale dedicata al cineasta spagnolo Iva Zulueta, una sorta di mito nel suo paese anche se ha fatto due soli lungometraggi che però è alla base del rinnovamento del cinema spagnolo.
Avete poi attivato una collaborazione con Amnesty?
Amnesty Italia ha scelto il nostro festival come uno tra i più impegnati in difesa dei diritti civili e quindi un giuria composta da Alessandro Gasman, Roberto Citran e Paola Saluzzi sceglierà un film tra le diverse sezioni a cui assegnare il premio “Cinema e diritti umani”. È per ora un riconoscimento morale ma che ci onora proprio perché è dato in nome del cinema di impegno civile che ci ha sempre caratterizzato fin dagli anni Sessanta.
Il cinema sta cambiando. Qual è il suo futuro?
Del futuro del cinema è troppo difficile dire qualcosa. Posso rispondere sul futuro di un festival. Le nuove tecnologie sembrerebbero escludere i festival perché oramai dalla rete si scarica tutto, però un festival è comunicazione, è rapporto diretto, persone che si conoscono, cineasti che si incontrano, che dialogano col pubblico, e tutto ciò è quello rende diverso un festival rispetto all’arida isolata visione in casa propria. Da ciò il fatto che i festival accettino e siano precursori di ricerca anche riguardo alle nuove tecnologie ma contemporaneamente fanno in modo che rimanga l’elemento della visione collettiva che secondo me è l’aspetto più bello del cinema.