[***] – Chi conosce quanto realizzato negli ultimi anni dal regista tedesco di origine turca – i film più noti sono La sposa Turca, vincitore nel 2004 dell’Orso d’oro e Ai confini del paradiso, Palma d’oro a Cannes nel 2006 per la sceneggiatura – potrebbe rimanere sorpreso, quando venisse a sapere che l’ultima sua opera è una commedia, anche questa, tra l’altro, ha ricevuto un premio dai giurati della Mostra di Venezia. Fatih Akin, che aveva sinora privilegiato i toni drammatici per affrontare le questioni relative ai conflitti e ai salutari intrecci culturali che si vanno generando tra i migranti turchi e il nuovo paese dove vivono, la Germania, con Soul Kitchen pare essersi preso una pausa da quell’universo in cui prevalgono le ombre, per immergersi nell’indiavolata energia che domina i protagonisti di questa sua nuova storia, in cui gli elementi della cucina e della musica sono ingredienti per i quali, in qualche modo, vale vivere, la prima quale momento di condivisione al di là di quelle che possono essere le differenze, la seconda come ispiratrice del sentimento profondo che fa da trama alle vicende della vita.
Del resto è lo stesso Zinos (interpretato da Adam Bousdoukos), proprietario del ristorante Soul Kitchen, a gridare disperato all’ispettrice dell’Ufficio delle imposte mentre gli sequestra l’impianto stereo perché non ha pagato le tasse che “la musica è il cibo dell’anima”. Insomma non di solo pane vive l’uomo, ma anche del senso che scaturisce dai luoghi e le circostanze in cui le pietanze sono realizzate, dietro cui c’è il lavoro e la cura delle persone. In un certo qual modo Akin cerca con questo film una sorta di gioiosa comunanza tra i protagonisti, provocata dalla caduta dei freni inibitori, grazie all’assunzione di alcol, pietanze prelibate, il ballo e l’ascolto di buona musica. Contagio allegro che travalica lo schermo in molte occasioni, per mezzo di una macchina da presa piuttosto mobile, con un montaggio serrato che ti tiene incollati gli occhi al succedersi delle immagini e con una giusta miscela di brani indimenticabili. Dj Akin parte col funky di Kool & The Gang e Quincy Jones, vira verso Mongo Santamaria, senza dimenticare Sam Cooke e Ruth Brown, poi passa ad un mix di hip-hop e sound elettronico di Amburgo (il film è lì ambientato, luogo di residenza del regista, città che ama più d’ogni altra), si concede uno sgrammaticato gruppo rock dal vivo e del rebetiko greco. Personalmente ci tengo a segnalare – all’interno della bella colonna sonora–compilation – un brano del dimenticato Natalino Otto, una voce assolutamente da riscoprire, intitolato La paloma (cercatelo!).
Dicevamo di una “pausa” comica che anche altri autori votati al dramma a volte prendono, si pensi all’ultimo Ken Loach di Il mio amico Eric. Registi tra loro indubbiamente differenti, anche se un qualcosa di simile i due ce l’hanno, potrebbero essere accomunati, per esempio, da una accentuazione politica che si aggira indisturbata nelle vicende che narrano. In questa occasione l’impianto classico da commedia, venato di rimandi all’Heimatfilm (genere cinematografico tedesco degli anni ’50 in cui prevalevano storie sentimentali piuttosto ingenue), punta l’indice contro la pratica di trasformare vecchi quartieri operai in zone residenziali borghesi alla moda che dà origine a una serie di progetti di speculazione immobiliare. C’è una scena memorabile in proposito, quando durante l’asta del ristorante Soul Kitchen, un ricco capitalista sta per aggiudicarsi il locale e per un geniale imprevisto – che non racconto – il corso degli eventi cambia dall’inevitabile acquisto (per certi versi si tratta di una piccola vendetta più rivoluzionaria del finale di Bastardi senza gloria, dove l’esisto storico coincide con quello della trama, cambia semplicemente la modalità con cui è sconfitto il Terzo Reich).
Con Soul Kitchen Fatih Akin costruisce il minimo comun denominatore del suo cinema che si compone dei migliori attori dei suoi film precedenti (Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu, Birol Unel), la sua piccola comunità di affetti a cui si aggiungono amori e parenti. Tutti insieme costituiscono quel corpo collettivo elementare da cui partire per non essere travolti dal disordine del mondo, prima ancora di qualsiasi progetto politico o ideologia – pare intuire il regista – c’è un’energia primordiale da condividere in un’esperienza. Alcuni potrebbero leggere in queste parole un ripiegamento nel privato. Non credo sia così, anche perché viviamo un’epoca di crisi della rappresentanza sociale (partiti, sindacati, eccetera…), in tempi come questi s’inizia da quel che si può, da quelle che sono le basi del vivere sociale, dalla comunanza dei sentimenti con coloro che riteniamo nostri simili, altrimenti sarebbe difficile definire una qualsiasi differenza.