Il 12 luglio 2006 Israele inizia un’offensiva militare contro il Libano diretta a neutralizzare il dispositivo armato di Hezbollah. Invade e bombarda il Libano, distrugge ponti, strade, aeroporti, insomma tutto quello che può servire per annientare il nemico o indebolirlo.
Qualche incidente di percorso, i civili, migliaia sotto le macerie dei villaggi rasi al suolo per errore o per vendetta.
Macerie, migliaia di persone in fuga, donne, bambini, anziani, uomini, cani e animali domestici, sotto il fuoco delle bombe, scuole evacuate, ancora bombe che ancora colpiscono, la fuga, il terrore, la sensazione di non avere riparo come durante il terremoto.
In Libano il 12 luglio 2006 c’era anche il regista Philippe Aractingi, reporter e documentarista, regista di un musical che in Libano aveva avuto molto successo in tempo di pace. C’era lui, la sua famiglia, l’attore Georges Khabbaz, l’attrice Nada Abou Farhat, la guerra con i suoi protagonisti e le sue vittime.
Il 14 luglio 2006 Philippe Aractingi comincia le riprese. Con lui una piccola troupe e un soggetto, una scaletta su ciò che aveva in mente di rappresentare. I dialoghi, le scenografie, il resto del cast, le comparse e tutto ciò che appare nei suoi fotogrammi è offerto dalla realtà. La guerra in corso, un popolo in fuga, villaggi distrutti e una madre libanese, Zeina, che vive all’estero ricca e spensierata. Zeina arriva disperata in Libano per cercare suo figlio e sua sorella in vacanza nel sud del Libano, il più colpito; comunicazioni interrotte da giorni e un marito lontano, ancora avvinto ai suoi affari e alle sue amanti. Nessuno vuole accompagnarla nel sud, troppo “dangerous”, nessuno dei tassisti affamati di clienti si offre ai suoi dollari, nessuno tranne uno, Tony.
Zeina e Tony cominciano il loro viaggio all’interno di un paese in cui è tutto affidato al destino e alla fortuna, compresa la propria sopravvivenza. Non raccontiamo gli esiti della sua ricerca perché le sue speranze diverranno le nostre speranze vedendo il film, ma sappiamo ascoltando la storia di questo film di essere di fronte a un piccolo miracolo e a un gioiello con poco più di un anno di vita. Non si sa se il vero miracolo sia vedere questo film ad un anno e un mese dalla guerra che descrive, o se sia il solo fatto di vederlo. A parte i due attori protagonisti, gli altri protagonisti sono presi dalla vita reale, attori non professionisti trovati lì, tra le macerie o nelle fosse comuni, o quelli che capitavano quando si doveva decidere che strada prendere per non scoppiare in aria tra le bombe a grappolo.
Neorealismo, se vogliamo. Anzi, sentiamo. Si sente la realtà, ma non si vede né un documentario né un instant-movie come molti erroneamente hanno scritto. La sceneggiatura è stata creata durante le riprese o addirittura dopo, quando serviva scrivere scene da aggiungere a quelle già girate. Tutto ciò che si vede, dai bombardamenti alla disperazione dei profughi, fino all’arrivo dei caschi blu, è reale: reali le macerie, reali i ponti distrutti e le scuole evacuate. In pochi giorni e con pochissimi mezzi Philippe Aractingi è riuscito a filmare e a far entrare sul grande schermo “l’improvvisata” israeliana in Libano.
Poi è dovuto andar via per la sua incolumità e quella della sua famiglia, è tornato qualche giorno in Francia per procurarsi l’argent, una modesta quantità che gli ha consentito, però, di ritornare in Libano e continuare le riprese. Intanto dopo 33 giorni di guerra giunge il cessate il fuoco, imposto dall’Onu, arrivano i caschi blu, le riprese sono al termine, le fosse comuni no. Tutto ciò che si riprende fa parte della realtà e gli attori passeranno anche per le fosse comuni dove tutti cercano i propri cari, dove viene annullata definitivamente la speranza e l’aria respirabile.
Gli attori che hanno seguito Philippe Aractingi nella sua opera hanno sofferto insieme a tutte le persone incontrate nel loro viaggio. Uno di loro, Georges Khabbaz, è tra i comici più famosi in Libano, al pari di un nostro Benigni, e come Benigni ha fatto nella sua La vita è bella, riesce persino a farci sorridere in alcune parti del film.
L’attrice Nada Abou Farhat sembra ripercorrere le tappe della Magnani nella sua bellissima rappresentazione della madre disperata.
Dopo un anno, a Venezia, il pubblico ha applaudito il suo film, il suo racconto della guerra e di quel sentimento di collera e di pietà che “ti porti dentro quando vivi in paese come il Libano, noi quella ferita ce la portiamo dentro e vogliamo raccontarla”.
Presentato all’ultima Mostra di Venezia dopo altri racconti di guerra come quelli di De Palma o Haggis, Sous les bombes (Sotto le bombe) colpisce per la semplicità “neorealista” : niente alta definizione, niente immagini scioccanti, nessun cazzotto nello stomaco, nessun argent americano alle spalle, ma un coinvolgimento pieno e disperato nella realtà che viene trasmessa in tutta la sua intensità. Un linguaggio semplice che riesce a farci entrare in un paese e ci fa sentire la tensione e la paura delle bombe insieme alla disperazione di un popolo che non ritrova se stesso e i propri affetti.
Sono felice che Sous le bombes sia distribuito in Italia e spero che presto lo sia nel resto del mondo. Io l’ho visto, spero ci riusciate anche voi.
è un film interessante, in particolare per il linguaggio ibrido, per il farsi e disfarsi in corso, per le contaminazioni tar realtà e finzione e per i collegamenti significativi tra storia privata e collettiva. Sembra quasi un manifesto sul nuovo corso che il cinema potrebbe prendere. Il contesto “reale”, fatto di bombe e macerie, non lascia affatto indifferenti, mentre la storia è secondo me troppo drammatica e romanzata. Comunque trovare un equilibrio in corso, e in una situazione pericolosa come questa, deve essere molto difficile, così che affidarsi a una struttura narrativa più o meno consolidata e lineare per arginare il caos è un espediente che tiene su dignitosamente la baracca. Però si potrebbe osare di più, felicemente.
anch’io l’ho visto a Venezia. Al momento qualcosa del film non mi aveva convinto anche se non riuscivo a capire cosa. Passati diversi mesi quel che ricordo del film è il suo difetto principale secondo me: la volontà di richiudersi sulla tragedia privata nel contesto di un dramma collettivo immane. pare quasi un manifesto del disimpegno. Come a dire: non ci devono interessare le responsabilità politiche, ma i casi umani. Chi soffre della guerra sono sempre i più poveri, è vero. Ma le guerre non sono eventi naturali e inarrestabili come i terremoti.