Un film nato quasi per caso, “frutto di un lavoro libero e spontaneo”, iniziato a Bobbio nel ’99 insieme agli allievi del “Laboratorio Fare Cinema” e portato a termine nel 2008: Marco Bellocchio vuole precisare che non aveva preventivato l’idea di raccogliere i sei episodi che compongono Sorelle Mai per farne un lungometraggio. “ Gli episodi nascevano uno dall’altro, da un anno all’altro (…) poi mi sono accorto che tra di loro esisteva un filo conduttore rappresentato dalla tematica del chi va e del chi resta…”. Eppure il risultato di questo collage estemporaneo su alcuni frammenti di vita della famiglia Mai, realizzato in low budget e in digitale, senza un rigido piano di lavorazione e con un canovaccio a fare le veci della sceneggiatura vera e propria, restituisce un’opera sorprendente, originale, forse la più intima e la più delicata del regista dei Pugni in tasca.
La grande Storia, collettiva, tragica e ufficiale, filtrata dall’animo ferito della Ida Dalser di Vincere, cede il posto a quella personale, piccola e anonima, della provincia piacentina; una provincia che è luogo di memoria, affetti, dolori, cinema. L’introduzione di alcune scene del capolavoro d’esordio suggerisce un continuum spaziale e psicologico con la realtà dell’epoca e con la sua immagine riprodotta, fino alla maturazione del doppio biologico Giorgio – in verità figlio dell’autore – che lo condurrà a recidere il cordone ombelicale con il proprio passato per inseguire le aspirazioni represse e per conquistare le libertà finora soltanto agognate.
Bobbio appare come una prigione dorata: un porto sicuro dove rifugiarsi per lenire le pene provocate dal mondo, quasi una placenta materna amorevole e accogliente che attutisce il frastuono della vita. Eppure da Bobbio si vuole fuggire; dalla sua quiete perenne e dalla sua immobile monotonia si tenta di evadere, nella consapevolezza di un richiamo destinato a ripetersi. La splendida sequenza finale sembra dover chiudere un cerchio: i fantasmi della mente dissolversi nel nulla e gli atavici sensi di colpa svanire definitivamente. Le sorelle Mai, che non a caso in una delle scene iniziali compaiono come spettri dall’oscurità di una stanza antica, ombre di loro stesse e vittime di una vita tanto rassicurante quanto coercitiva nel rispetto dei ruoli, sono il simbolo di un vissuto fatto di amore e di odio, di un trascorso esistenziale che oggi non conosce rimpianti.
Sono immutabili a dispetto dei nipoti e di alcuni amici che hanno avuto il coraggio (o forse l’incoscienza?) di varcare il confine della stabilità, di lasciare il certo per l’incerto. Per raccontare senza racconto dieci anni vita in famiglia nel microcosmo fuori dal tempo della provincia piacentina, Bellocchio si serve unicamente del tempo, del suo scorrere inevitabile e dei necessari vincoli ontologici che incontra nel cinema, catturandone i frammenti come un testimone indelebile. Sceglie uno stile minimalista fatto di pochi essenziali movimenti di macchina, di numerosi primi piani, di una messa in scena sobria e a tratti addirittura grezza; chiede ai suoi parenti/attori di “non recitare” rimanendo però in equilibrio con la dimensione soggettiva, profondamente interiorizzata, della fetta di vita che attraversa la famiglia nell’arco di dieci anni.
L’estetica domestica della tecnologia digitale unita all’espressività delle luci calde e al contempo tenebrose della bellissima fotografia, completano un discorso poetico ostinatamente cinematografico, quantunque inscritto nella corale familiarità del film stesso e del progetto che ne è alla base: un clima permeato da una felice anarchia creativa, sensibile alle improvvisazioni e alla cooperazione, che si traduce per molti – attori compresi – in una grande esperienza formativa. E sullo schermo in un film nuovo, maturo e sperimentale.