Non c’è nulla di meno interessante di un amore felice. Cinematograficamente parlando, si intende. Parafrasando un illustre e abusato incipit, si potrebbe dire che tutte le coppie felici sono uguali, mentre quelle infelici lo sono in maniera diversa. E quindi, cinematograficamente, sono molto più interessanti. Adam e Eve, i protagonisti dell’ultimo film di Jarmusch, riflettono perfettamente lo stereotipo letterario del vampiro: sono belli, ricchi (ci avete fatto caso che i vampiri sono sempre ricchissimi? Del conte Dracula possiamo ipotizzare possedimenti ereditari, qui viene il sospetto che si tratti di oculati investimenti), eleganti, colti e piuttosto tormentati. A differenza dei loro illustri predecessori, il cui alone romantico tanto amato dagli adolescenti è dato in buona parte dalla condanna all’immortale giovinezza unita ad un’eterna solitudine, loro sono in coppia, e da secoli si amano di un grande e infinito amore. Non sono stati colpiti dalla maledizione di dover distruggere ciò che amano e amare ciò che distruggono (Sting, Moon over Bourbon Street) perché secoli fa si sono incontrati e completati. L’amore reciproco neutralizza l’impulso a mordere la giugulare di incauti sconosciuti, che rendeva erotico persino lo spaventoso Max Schreck, protagonista del Nosferatu di Murnau, tanto più che ormai nella società capitalistica di oggi basta pagare bene per avere tutto il sangue che si vuole in comodi thermos da tenere in frigo, e con il quale fare anche dei bellissimi ghiaccioli rossi.

 

Belli, ricchi e immortali, i due vampiri passano il tempo impegnati nelle rispettive occupazioni, lei la letteratura (è compagna di bevute di Christopher Marlowe, dopo secoli ancora invidioso del suo più noto collega Shakespeare) lui la musica che compone sempre a beneficio di altri (ieri Schubert, oggi divi rock). Non è un caso che questo grande amore si consumi però a distanza: Eve si aggira nottetempo senza posa per le strade di Tangeri, mentre Adam vive a Detroit in un appartamento poco in linea con l’eleganza classica dei castelli vampireschi e che non sfigurerebbe in una puntata di Sepolti in casa. Neanche un così grande amore tollera secoli di convivenza, dunque, e nemmeno talento, bellezza, immortalità e gioventù bastano a rendere felici: lo spiegava bene Pavese nei Dialoghi con Leucò quanto gli dei invidino agli uomini la mortalità che dà la misura e il senso dell’esistenza umana.

 

Preoccupata dall’aggravarsi dei tormenti di Adam, che medita il suicidio con una pallottola di legno, Eve si ricongiunge a lui e insieme osservano con annoiato distacco il mondo dei vivi, che non a caso Adam chiama “gli zombies”. I vivi cercano invece di interagire con loro, non li minacciano anzi sono gentili e servizievoli, ma hanno ai loro occhi la colpa di aver distrutto la bellezza del mondo. Per fortuna un giorno le scorte di sangue finiscono e i due, come due rockstar glamour e tossiche, finalmente hanno qualcosa di cui preoccuparsi tranne se stessi.

Only lovers left alive ripropone alcuni moduli stilistici tipicamente jarmuschiani come la presenza ingombrante della musica (del gruppo rock del regista, gli Sqürl), l’uso insistito del ralenti, un certo manierismo tanto sfacciatamente autocompiaciuto da divenire simpatico, anche se manca la rarefatta eleganza del suo bianco e nero, ma purtroppo queste cifre stilistiche mal si combinano con la figura del vampiro, già sufficientemente rischiosa di suo. La parentesi presunta umoristica, che vede l’arrivo della sorellina di Eve,  che combina guai, finisce le scorte ematiche e si beve (letteralmente) pure l’amico di Adam, Ian, più che altro si trasforma in una parodia neanche troppo divertente. Ancora meno a suo agio appare il regista nel confrontarsi con il tema della coppia, addirittura una coppia felice, rispetto alla consueta grazia con cui (quasi sempre) tratteggia i ritratti di simpatici loosers, più o meno compiaciuti del loro isolamento. Loosers che poi a loro volta interagiscono con donne o meglio ancora con uomini, spesso dando vita a situazioni assurde, oniriche e surreali, piene di malinconica poesia, soprattutto quando la narcisistica consapevolezza del sé autoriale lascia spazio alla leggerezza e all’altro e al racconto.

 

L’immortalità nega la poesia insita nel rimpianto dell’innocenza perduta e la congela nell’infallibilità (e nella noia) di chi può ripetere all’infinito gli stessi errori. Non stupisce allora che i due protagonisti vivano separati, parlandosi solo via web cam, e che sia il male di vivere a riavvicinarli. Pretesto narrativo piuttosto debole, la difficoltà di reperire sangue, perché di “zombies” da mordere sul nostro pianeta ce ne sono tanti. “Si, però non uccidiamoli, trasformiamoli” implora Eve. “Come sei romantica” risponde Adam. Tutto sommato, alla noia sembra essere preferibile la morte.

 

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