I fatti
Un rosso cupo invade e vampirizza il quadro, unica eppure abbagliante viratura cromatica, sin dalle primissime sequenze di Solo Dio perdona, come un sicuro presagio di sangue. Il tempo di adattare l’occhio agli ambienti fumosi di una sozza palestra pugilistica di Bangkok, e un uomo intinto nel rosso assoluto e abbagliante, incastonato in una inquadratura fissa che sarebbe illeggibile se quel rosso fluo non fendesse la notte, laconicamente annuncia: E’ tempo di incontrare il diavolo. Effettivamente di lì a poco lo incontrerà, effettivamente ci sarà del sangue, perché Solo Dio perdona, lo si ami o lo si odi, è l’espressione coerente di un manifesto cinematografico preciso, in cui ogni sequenza, ogni inquadratura, ogni fotogramma, viene condotto senza scampo alla sua estrema e annunciata conseguenza estetica e narrativa: lì dove deve arrivare.
In questo senso è un consistente grumo di interesse il nuovo lavoro di Nicolas Winding Refn, uscito da Cannes con qualche fischio e senza premi, molto più di quanto lo era stato Drive, che pure aveva lasciato la Croisette due anni fa nientemeno che con il premio alla regia e lodi pressoché unanimi. Il film del 2011, salutato da più parti come un nuovo punto di riferimento del cinema mondiale, era parso a chi scrive un esercizio di stile abile quanto in definitiva inane, sulla traccia classica del romanticismo fuorilegge, in cui il regista di Copenaghen dava sfogo a tutte le mirabilie tecniche e stilistiche che gli erano conosciute, attraendo con esse, come i topini ammaliati dal pifferaio cari a un suo celebre connazionale, gli amanti della forma estenuata e ostentata. Ma di vera sostanza sembrava essercene poca, e quell’armamentario nient’altro che il facilitatore lussuoso di una narrazione infine realistica, mai uscendo il film dai margini di un minimalismo urbano appena appena fumettizzato.
Al cinema col diavolo
Viceversa Solo Dio perdona – cronaca della spirale di efferata violenza in cui si ritrova lo spacciatore Julian, dopo che suo fratello è stato ammazzato in ragione di una vendetta, nella Bangkok dei giorni nostri – ambisce sfrontatamente e senza mezzi termini alla dimensione del film totale. L’universo estetico, barocco e ridondante, è in assoluta continuità con Drive. Anche qui, Refn costruisce quadri spesso spogli di figure umane ma saturi di colori e ossessivamente composti; quadri gelidi e perfetti in cui rinchiude l’occhio dello spettatore, per poi sciogliere l’immobilità prediletta e attraversarli in lungo, in largo e in profondità con movimenti di camera controllatissimi, sinuosi, meglio se in slow motion, adagiati sul mirabile letto sonoro elaborato da Cliff Martinez. L’intento della mdp non è studiare un ambiente, ma cadere ipnotizzata dal suo stesso incedere/non incedere, giusto un attimo prima che la violenza inaudita si appropri dell’immagine e la squarci dall’interno. Come una sciabolata. L’effetto del tutto è narcotizzante e avvolgente, e Bangkok trasmuta progressivamente e fluidamente da contesto realistico a sfondo su cui proiettare per intero l’immaginario malato di Julian/Ryan Gosling.
Ma è poi col montaggio che la sfida di Refn si fa più alta ed entusiasmante. Rinunciando quasi del tutto a una successione logicamente motivata delle scene, come da sceneggiatura classica, e privandosi quasi completamente del fraseggio dialogico (se non in chiave ironica e spiazzante), il cineasta danese consegna l’intero onere della narrazione a un montaggio fatto di arditissimi passaggi concettuali, raccordi puramente visivi, che seguono il flusso mentale del protagonista e possibili connessioni spirituali-telepatiche, più che la linearità del racconto. I controcampi, imprevedibili e destabilizzanti, non ricostruiscono uno spazio e un tempo verosimili, tendono anzi a creare ad ogni inquadratura un’unità spazio-temporale nuova, sempre più spinta in direzione contraria all’impressione di realtà. Ecco che, in questo modo, diventa possibile l’esistenza dell’inferno: un visionario lurido incubo patinato in cui, in fondo, solo la violenza conserva una purezza del gesto. Almeno se ad agirla è il diavolo in persona, che l’inconscio di Julian decide di incarnare nell’ascetico e sanguinario Chang.
La terza dimensione, oppure no
E però. Se è vero che in Refn è l’estetica a generare una poetica, e – vivaddio – non una qualche verità esistente prima e fuori del film, è pur vero che questo movimento apre inevitabilmente, in fase di analisi, a un viaggio di ritorno. In altri termini, legittima a chiedersi: qual è la sostanza del pensiero di Refn, quale l’ispirazione poetica profonda che nutre il suo immaginario? C’è un Edipo esplicitamente rivendicato, un Edipo da conferenza stampa, sbandierato sullo schermo attraverso un accumulo di evidenze: Julian è l’assassino di suo padre, ha una madre castratrice a cui lo lega un rapporto a dir poco morboso e un legame col fratello di rivalità irrisolta. C’è la chiara impotenza di Julian, immortalata nel sogno (?) ricorrente delle mani mozzate e nella pratica (o fantasia?) bondage che egli predilige; ma in realtà tematizzata costantemente attraverso una mobilità implosa del personaggio che lascia intuire la tensione silenziosa e proiettiva del suo subconscio. L’originalità latita.
C’è poi un orientalismo fastidioso che percorre il film, in ragione del quale la Tailandia incarna magicamente tutti i luoghi comuni più comodi: prostitute a basso costo e palestre di arti marziali, hotel superlusso e favelas, violenza in agguato ad ogni angolo. È chiaramente una Bangkok da stereotipo, ennesima proiezione del protagonista, che serve al film per immettere lo spettatore (occidentale), al fianco di Julian, in una condizione di alterità riconoscibile: un inferno immaginabile. Questo è uno dei tanti aspetti di Solo Dio perdona, e in generale del cinema di Refn, che denotano la sua enorme consapevolezza della gamma delle possibili risposte spettatoriali, la cui più importante occorrenza riguarda ovviamente la messa in scena della violenza. Le sequenze di ferocia, compiaciute e prolungate fino allo stremo, sembrano voler sedurre il pubblico puntando direttamente sulla sua morbosità. Qui il rapporto tra regista e spettatore sfiora davvero la manipolazione, e trova forse la sua spiegazione verbale proprio nel film, quando Refn fa dire a Chang, che all’interno di una casa di tolleranza si appresta a torturare barbaramente un uomo per estorcergli un’informazione: Donne, qualsiasi cosa accada tenete gli occhi chiusi; uomini, godetevi lo spettacolo.
La questione non è ricondurre una poetica di immagini e suoni a una o due stringhe di frase; la questione è dare voce e ragione di una condizione spettatoriale di disagio. Che la sudditanza forzata, cui Solo Dio perdona obbliga il suo spettatore, non sia in realtà il diversivo che permette al regista di fare a meno del senso? E allora, provando a dare questo per buono, forse la verità è che le ferite, anche fisiche, che Refn apre nel corpo dell’immagine e i corridoi dell’inconscio in fondo ai quali lo sguardo attonito di Gosling scorge gli abissi, non portan
o a nulla, non riguardano che la superficie dell’immagine stessa. Refn non è Cronenberg né Lynch – modelli spericolatamente evocati – non perché non abbia il coraggio di guardare oltre quei possibili «passaggi», ma perché non ha nulla da mostrare: più in là del buio, dentro la carne in cui si spinge la mano di Gosling, nel suo cinema può esserci solo uno stacco di montaggio.
trovo ineccepibile la tua recensione..piuttosto mi sorprende il tuo punto di vista su quella mina vagaante di H.Korine e sul suo gioiello Spring Breakers, autentica rivelazione di questa stagione.
Ciao Giuseppe, ti ringrazio. Su Spring Breakers però non ho scritto nulla, a dire il vero nemmeno l’ho visto…