Dopo Crimini e misfatti e Match Point, Sogni e delitti (Cassandra’s dream) ritrova in ottima forma un Woody Allen indagatore della natura umana, alla ricerca di risposte sul fato, sulla responsabilità morale e sulla capacità di scelte autonome. Alle soglie dei settant’anni, questa volta il regista ritorna al cinema senza alcuna ironia, ma con una visione meno amara e cupa della vita nonostante l’esito tragico della vicenda.
Mentre in Crimini e misfatti Martin Landau la faceva franca con la propria coscienza, e in Match point lo scotto che paga Chris per i suoi omicidi è quello di rimanere estraneo a se stesso e al suo successo, in Sogni e delitti i due protagonisti estingueranno con la vita il debito di un delitto senza giustizia.
Dio e fato sono le due parallele in mezzo alle quali scorrono le vite dei due fratelli interpretati da Ewan McGregor e Colin Farrell: da un lato il destino necessario che rende vana qualsiasi decisione umana, dall’altro, un Dio che, riprendendo una frase dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, “se è morto, tutto è possibile”. In mezzo, l’autonomia delle scelte umane quando queste si configurano in un orizzonte che tiene conto dei sentimenti delle persone intorno a noi: la coscienza. E proprio quest’ultima sembra essere la chiave di volta di Sogni e delitti.
Due fratelli, dunque, velleitari ma spiantati che sognano una vita ricca e di successo. E il loro sogno si apre e si chiude su una barca che acquistano grazie alle vincite alle corse dei cani di uno di loro. Cassandra’s dream appunto. Il nome della barca e del cane vincitore. Un destino iscritto in un nome, ecco, che mette in moto una serie di eventi a catena. Necessari, sembra.
A seguire, i due si ritrovano nel vortice della realizzazione dei propri sogni, a comprare case e a mettersi in affari in California, a frequentare belle donne ambiziose e aspiranti attrici fino ad arrivare a uccidere. ”Non c’è alternativa” dice il fratello cattivo-McGregor a quello buono-Farrell. E in effetti alternativa non c’è quando tutti i personaggi sono attutiti nei loro sentimenti. Allen è straordinario nel raccontarcelo utilizzando un clima secco e asettico, quasi al limite della noia, in cui nessun protagonista sembra mosso da emozioni e procede come un automa verso un destino cieco fatto di “cose”. E se un dio a cui riferire della propria condotta non esiste (“e se dio ci fosse?”. “Dio non c’è” risponde McGregor a Farrell) e la coscienza neanche, allora crolla l’orizzonte morale e non ha più senso interrogarsi.
Ma una falla, in questo sistema compiutamente congegnato in cui ogni evento sembra incastrarsi a perfezione (le circostanze favorevoli, l’assenza di testimoni durante l’omicidio), c’è, ed è la presa di coscienza dell’atrocità commessa da parte di uno dei due fratelli, quello buono, che, nel momento stesso in cui diventa consapevole di essere responsabile di un delitto, mostra la sua sensibilità alla sofferenza e al dolore provocati. E partecipando alle emozioni altrui mette in campo quella dimensione etica inevitabile in cui scatta anche il senso di giustizia. L’omicidio dello scomodo testimone che lo zio “d’America“ (Tom Wilkinson) chiede ai due fratelli in cambio del suo denaro, produrrà sì un morto senza giustizia, ma una giustizia traslata – tramontata l’ondata d’indifferenza emotiva – si realizzerà negli esiti drammatici che sulla barca chiuderanno il cerchio.
Così se Dio non c’è, sembra dire Allen, però ci siamo noi e la possibilità di scegliere, che si manifesta nella percezione della rilevanza dell’altro e che porterà McGregor e Farrell a una colluttazione finale che li rimetterà in contatto con il mondo altrui. Tutto questo perchè l’uomo non venga ridotto a una pedina che tra Dio e fato perda di autonomia sulla scacchiera della vita.
io invece ho trovato il film angosciante e secondo me Allen sta perdendo il suo ateismo.
Magari mi spiego meglio e ci si incontra in una “divisione”.