Il velo nero del pastore e Amore Carne. Della prima, performance teatrale liberamente ispirata alla novella di Nathaniel Hawtorn e ideata da Romeo Castellucci con la sua Societas Raffello Sanzio, vista al Teatro Vascello all'interno del Romaeuropa Festival, più che la storia rimangono addosso singole scene, quasi che le stesse si fossero corrose sulla superficie della retina e la violenza iperrealista che le caratterizza si fosse propagata dentro chi guarda, ascolta, nei confronti di chi, infastidito e attratto, si ritrae e poi si sporge. Una violenza a tratti anche sublime, esteticamente attraente, una violenza quasi congelata e colta nella purezza dell’istante, corporea nella reazione che produce e concettuale nella messa in scena, un invito a vedere oltre il velo nero del rifiuto dell’esperienza: provocazione riuscita e spazio scenico ricreato. Lo spettatore, investito di interrogativi, si assume la responsabilità di dare un senso al proprio sguardo.
Questa, grossomodo, la sequenza intercettata: la giovane donna/ Maddalena colpita dai ripetuti spari di luce dopo che il suo corpo si è offerto, desiderante, al pubblico e dopo che ha partorito una sfera opaca e pesante come una palla di cannone; il treno nella notte che investe la donna e che poi, rompendo i limiti della finzione scenica tramite l'invasione dello spazio protetto del pubblico, rimanda all'incubo della deportazione e della guerra -anche quest'ultima nel realizzarsi non tiene più conto delle limitazioni poste in tempi di pace; i topi costretti dentro il tubo degli esperimenti che suggeriscono il ruolo di cavia della donna, anche se quest’ultima, poi, riceve il conforto, in qualche modo cristologico, di un panno bagnato sul suo volto pieno di sangue e di un abbraccio fraterno; il meccanismo luminoso sospeso che, attivato, produce lo scoppio delle lampadine attraverso l’avvitamento dilatato di aereonautiche eliche di ferro. Vetri sparsi sul palco e buio è quello che apparentemente rimane.
Delbono, visto col suo film Amore Carne al Teatro Valle Occupato di Roma, già presentato allo scorso Festival del cinema di Venezia, è invece caos, frantumazione, apparente casualità, passo passo ricomposti in un crescendo di senso espressivo, tematico, esperienziale, esistenziale: un’affermazione di vita sofferta, gridata, sgranata, scritta con lo stomaco. Un’affermazione politica. Pippo – viene da chiamarlo così – parte da sé, come si diceva una volta. Parla di sé per testimoniare un viaggio fatto di fughe, dolore e crescita, e nel farlo sceglie il gesto, il movimento e le narrazioni (mai lineari) che sono quelle del suo teatro danza e del suo cinema senza definizioni. Espressioni fisiche, terrene anche nel volo, dentro la realtà delle cose anche nei momenti più sublimi, una specie di coscienza tattile, organica. Registrare tutto per toccare tutto e comunicare tutto, penetrare il senso con la presenza dei corpi, degli oggetti, delle relazioni, delle diversità, dei fantasmi divenuti simboli (la madre di Pippo), la solitudine del viaggio come prerogativa alla conoscenza e la necessità di un compagno di viaggio per non farsi mangiare dalla paura.
C’è un’esplorazione dei luoghi e dei tempi che sembra agita da una coscienza fisica, anche se poi la narrazione, quasi alleggerita dalla perdita seguita all’iniziale caos distruttivo, prende forma e significato. Ed ecco, allora, che l’incontro di Pippo malato (la distruzione penetrata proprio dentro il suo corpo) col diverso produce il ritrovamento dell’altro sé e il coraggio del grido lungo e intriso di vento che porta alla liberazione: Delbono oramai ci ha abituati a spettacoli liberatori (anche il suo ultimo spettacolo teatrale, Dopo la battaglia, è un riscatto della diversità). Il sordomuto Bobò e il down Gianluca attraverso la loro gestualità vitale, spontanea e quasi pre-cosciente riescono a liberare Pippo dal suo senso di colpa (lui, omosessuale e sieropositivo cresciuto nella parrocchia di Pietra Ligure): l’essere sopravvissuti non è più una colpa ma una ricchezza, perché solo attraverso la sofferenza, che segue all’attraversamento del rimosso, si può esprimere una verità (come anche Von Trier nel suo bellissimo Melancholia). Il corpo espanso, come in Cronenberg, il corpo che vive e che muore: la terra spaccata, arsa, eppure ancora viva nei fili d’erba cresciuti lungo le feritoie tanto amate da Pina Bausch, a cui il film è dedicato. La liberazione, quindi, non avviene tramite l’identificazione di un percorso psicologico, quanto piuttosto con la messa in scena della massa corporea, di quella sonora, dell’assurdità, del grido e del silenzio, della musica, della danza dell’attore e dell’interpretazione di un ruolo da parte del danzatore, detour rivelatorio e anti-retorico, invito ad uscire fuori dal ruolo consolidato e a iniziare la ricerca. Il cinema e il teatro come luoghi dell’esperienza. Delbono dice che un’esperienza che si attraversa nella vita può trasformarsi in un qualcosa di condiviso e importante per gli altri per mezzo dell’arte, e che il suo primo lontano amore, finito in modo tragico, fu segnato da un non coraggio di dirsi la verità, dalla paura di dirsi “ti voglio bene. Ti amo. Ho bisogno di te”. Ecco allora che il bisogno vitale di cercare la verità, di entrare e uscire dall’ombra (il velo nero che copre il volto?), diventa in Delbono il filo rosso che mette insieme il personale e il politico. Così che dopo la fuga disordinata verso l’anestesia dell’esperienza e la battaglia contro la distruzione e la morte, accettando la perdita, la paura e il dolore che fanno parte della nostra reale esperienza, si può iniziare il nostro vero viaggio -forse.