di Maria Giovanna Vagenas
Small Things like these di Tim Mielants, tratto dal romanzo omonimo di Claire Keegan e adattato qui per lo schermo da Enda Walsh, primo lungometraggio del concorso di questa 74 edizione della Berlinale, s’incentra su una pagina oscura di un passato, relativamente recente, della società irlandese, ossia sull’esistenza e le pratiche sinistre di un’istituzione ecclesiastica cattolica gestita da un ordine di suore, le Magdalene Laundries che di fatto erano delle vere e proprie case di arresto e correzione in cui venivano segregate le ragazze rimaste incinte fuori dal matrimonio. Dopo avere partorito in seno all’istituzione, malgrado la loro volontà, le ragazze erano poi costrette a separarsi dai loro bambini che venivano dati in adozione.
Come c’informa anche una nota in chiusura del film queste case esistettero dal 1929 fino al 1996 costringendo più di 10.000 ragazze incinte ad un regime coercitivo e punitivo dove erano sottoposte non solo ad una violenza psicologica ma anche a delle violenze fisiche.
Questo è il background intorno a cui si costruisce pian piano, per piccoli tocchi, la vicenda della pellicola portata da un protagonista maschile, Bill Furlong, un uomo sulla quarantina, sposato e padre di cinque figlie che si guadagna la vita come commerciante di carbone.
Il regista porta subito un’attenzione particolare sulla durezza del lavoro di quest’uomo che passa le sue giornate portando sulle spalle dei pesanti sacchi di carbone, che carica e scarica sul suo camion per distribuirli ai suoi vari clienti. Lo vediamo tornare a casa sfinito ogni sera ed eseguire puntualmente lo stesso rituale. Appena varcata la soglia della sua dimessa dimora, Bill si toglie la giacca e s’infila subito in un piccolo bagno dove, dopo avere riempito il lavandino d’acqua, immerge le sue mani nere di carbone, le insapona ed inizia a sfregarle furiosamente con una spazzola per togliere ogni traccia di sporco. Ogni volta questa sequenza termina con un’inquadratura dall’alto verso il basso del lavandino pieno di acqua nera.
Ben presto risulta chiaro che quest’atto d’igiene vuole togliere e cancellare non solo dalle mani ma anche dall’animo di quest’uomo benevolo, taciturno e sensibile, le tracce un dolore, di una sofferenza che si porta dietro dal tempo della sua infanzia.
Bill Furlor è interpretato dalla star Killian Merphy -che anche uno dei produttori il film- ed è proprio intorno al volto magnetico dell’attore che il film si costruisce, seguendone le gesta attraverso una moltitudine di primi piani che vogliono sondare ogni anfratto della sua anima afflitta e tormentata.
Attraverso una serie di flash back che s’innescano, di volta in volta, sulla vicenda che si volge nel presente, veniamo a sapere che Bill è l’orfano di una ragazza-madre – molto fortunata rispetto a tutte quelle giovano donne che venivano rinchiuse nelle Magdalene Laundries – che venne assunta come cameriera da una ricca proprietaria terriera che la trattava con rispetto e provava un grande affetto per il suo bimbo, al punto da addossarsene la responsabilità dopo la sua morte precoce. Quest’infanzia travagliata ma non completamente infelice, ha lasciato delle tracce indelebili nell’animo di Bill; una malinconia profonda lo assale ad ondate e lo tiene sveglio di notte. Bill guarda sempre con affetto, preoccupazione e con vera empatia chi lo circonda; così un giorno. in pieno inverno – il film si svolge nel periodo di natale- scorge un bimbo solo ed affamato sul ciglio di una strada, ferma il suo camion per chiedergli come sta, se può fare qualcosa per lui. Un altro giorno la sua attenzione viene attratta da una scena che si svolge proprio a due passi del suo magazzino, attiguo di fatto ad una Magdalene Laundry, e rimane profondamente scosso dalla vista una madre che trascina quasi di forza sua figlia fino alla porta dell’istituzione.
Pochi giorni dopo, nel suo magazzino troverà una ragazza tremante di freddo, che giace sul carbone, completamente terrorizzata. Non gli rimane altro da fare che riaccompagnarla gentilmente di nuovo nel convento. Dietro le porte di quest’edifico Bill scoprirà una realtà crudele ma gelosamente nascosta agli occhi del mondo. Forse la scena più intensa del film è proprio l’invito della badessa a bere un the con lei nel suo lussuoso ufficio di fronte alla fiamma crepitante di un camino che sembra come la bocca dell’inferno. Questa scena è cruciale proprio perché qui viene mostrato l’abuso di potere che questa donna esercita, anche al di fuori dei confini del suo convento sull’intera comunità locale facendo prova della sua potenza manipolatrice.
La vicenda ci mette di fronte ad un dilemma morale: quanto fino a che punto bisogna prendersi cura degli altri? Bisogna farlo anche a scapito della nostra stessa convenienza. La moglie di Bill pensa che ognuno debba, infin dei conti, venire abbandonato alla propria sorte, Bill invece pensa esattamente il contrario ed è per questo che prenderà una decisione radicale e, finalmente, ritroverà il sorriso.
Small Things like these, tratta certamente da un soggetto forte tanto da un punto d vista storico quanto morale, tuttavia questo progetto, non privo di ambizione, non viene assecondato dalla messa in scena che, pur optando per un’ambientazione realista, si perde in una serie di movimenti di cinepresa sinuosi, molte carrellate sensazionaliste, troppi primi piani sul volto del protagonista. Anche da un punto di vista narrativo il modo in cui viene descritto il personaggio di Bill pena a convincerci, risulta difficile immaginare un uomo di mezz’età padre di cinque figlie e titolare di una piccola impresa, lasciarsi travolge all’improvviso dai suo ricordi d’infanzia e dal dolore per la perdita prematura della madre. La sensibilità esacerbata a fior di pelle di quest’uomo resta enigmatica e sembra in contraddizione con la sua stessa vita.
Infine e – paradossalmente- forse proprio la scelta di Killian Merphy- attore per altro eccellente in altri ruoli, sembra non essere stata particolarmente felice per questo ruolo.