La distanza fra la realtà e il set a volte può essere particolarmente vicina. Può capitare che per circostanze assolutamente imprevedibili o magari nascoste nella psiche di un attore, questi finisca per intraprendere nella vita il ruolo che aveva al momento delle riprese, oppure rimane incastrato nel successo pubblico di un personaggio. In un percorso che dalla fiction arriva alla persona oramai prigioniera di un esito formale, con una ulteriore possibilità ancora: che la prigionia o la maschera della finzione torni ad essere contenuto e forma di un’ulteriore produzione cinematografica. Questo circolo di circostanze linguistico esistenziali, questi passaggi da uno statuto all’altro dell’esistenza e della finzione, rivelano, almeno secondo me, la parzialità della visione del reale affidata ad una sola narrazione e quanto invece sia produttivo di senso, all’interno di una stessa composizione filmica, la pluralità delle narrazioni o altrimenti la denuncia esplicita dei limiti di quanto vediamo scorrere sullo schermo. Lo stesso discorso credo possa svilupparsi in direzione opposta e cioè dal fenomeno alla sua rappresentazione, anzi a maggior ragione in virtù del dato materiale di partenza inserito un continuo spazio temporale in evoluzione.
Dunque un cinema che voglia in qualche modo farsi provocare dal reale, senza essere per forza di cose realistico, quindi che escluda l’obbligo di un determinato stile posto a garanzia di quanto vediamo, dovrà tenere conto della molteplicità di strati entro cui si dispiega il mondo e al tempo stesso evidenziare i limiti di quanto mostra. In questa direzione Gomorra si presenta come esemplare e non solo perché tratto da un libro, quindi già con un suo livello testuale, ma anche per la scelta di articolare il film in episodi che eliminano una esplicita ed unica finalità intrinseca alla narrazione. Inoltre almeno tre degli attori presi dalla strada da Garrone continuano a costruire storie sul medesimo argomento. Faccio riferimento a Giovanni Venosa, Salvatore Fabbricino, e Bernardino Terracciano finiti in carcere con accuse che tirano in ballo proprio la camorra. L’ultimo in ordine di tempo è Giovanni Venosa che nel film condanna a morte i ragazzini perché non vogliono prendere ordini da lui. Nella vita è stato arrestato per spaccio di droga e condannato a due anni di casa lavoro, la settimana prima di Natale è uscito per una “licenza premio”, tornato nel casertano è stato subito impiegato dal clan locale alla riscossione del pizzo: “la rata delle feste”. Fabbricino invece è di Scampia e compare in una delle diverse scene girate nel quartiere delle “vele”. Ha un fratello ucciso nella faida che divide i Di Lauro e gli scissionisti, raccontata anche nel film, ed un altro che deve scontare 25 anni di carcere. Lui è stato indicato da un pentito come un “dipendente”. Poi c’è Terracciano che in Gomorra interpreta il boss “Zi Bernardino”, accusato nella vita di essere un appartenente al clan dei Casalesi.
Viene da pensare, dopo gli esempi appena menzionati, che la materia con cui è entrato in contatto il regista è così tanta da fuoriuscire dall’”involucro” film che la contiene, una sorta di eccesso di vita che testimonia implacabilmente la differenza con le immagini e al tempo stesso la loro similitudine col reale. Gomorra ci suggerisce quanto sia espressivamente produttivo la mediazione con soggetti e cose che non si fanno ridurre ad una astrazione ma che sono lì in carne e ossa ad esigere una relazione, dunque una sorta di partecipazione attiva frutto del loro solo esserci. Di fronte agli arresti di alcuni dei protagonisti c’è stato qualche sciocco che ha chiesto a Garrone di fare più attenzione in futuro su chi arruolerà come attore. Attenzioni e consigli che sono ovviamente da non prendere in considerazione, si commentano da soli, come chiedere al Caravaggio di non dipingere una prostituta nei panni della Madonna! Come se quella continua negoziazione di istanze tra il mondo di fuori e quanto si raccoglie poi sulla pellicola non definisse una parte considerevole del cinema, almeno quello del Novecento.
Paradossalmente c’è invece da aggiungere che quei criminali sono stati dei veri e propri maestri per Garrone, in qualche modo una delle ragioni stilistiche di Gomorra sta proprio in questo accorciare le distanze con le esistenze umane dei protagonisti. C’è una situazione nel backstage del film, inserita ora nel dvd, che spiega molto meglio delle parole quanto sto dicendo. Durante le prove per le riprese di una scena Giovanni Venosa, che interpreta un boss, non accetta le scelte del regista, le azioni che gli chiede non lo convincono, non è quello il comportamento, la forza, i gesti che quelli come lui mettono in certi atti. Non sarebbe vero, nessuno ci crederebbe fa capire, quindi bisogna che gli si dia retta. Il regista sembra essere in difficoltà, quasi spiazzato, poi però accetta il contributo di Venosa che al termine della lavorazione sarà altro rispetto a quel momento delle riprese. Ancora una volta un’apertura sensibile al mondo trasforma, grazie allo sguardo di un artista, una materia bruta in bellezza.
Ironica la coincidenza – ma forse non tale – dell’articolo all’indomani dell’esclusione dagli Oscar.
Sì, ancora Gomorra, ma non per loro.