Ci sono film e film, e questo è ovvio. Ma ci sono anche, intorno ai film, dibattiti e dibattiti – e questo forse è un po’ meno ovvio – ingenerati più o meno direttamente dalla statura dei film a partire dai quali si sviluppano. Nelle ultime settimane, dopo aver visto Shame di Steve McQueen, ci ho riflettuto, ne ho discusso molto e appassionatamente con amici, ho letto un po’ tutto quello che ne è stato scritto. Al di là della questione del giudizio in sé (che, stringi stringi, finisce per essere la cosa meno importante), mi ha colpito che tutti o quasi ne parlino – ne parliamo – non discutendo i «temi» del film o fermandoci su questo o quell’aspetto tecnico, bensì restituendolo nei termini di un «tutto» poetico-emotivo. Non lo spezzettiamo. Parliamo di Shame come di un’esperienza che ha provocato in noi delle cose, e quindi cerchiamo, verbalizzando quell’esperienza, di capire in che modo le ha provocate (consci del fatto che dall’altra parte c’era un essere pensante, McQueen, che ha messo in campo ben precise e consapevoli «tecniche»). Partendo da una vetta vertiginosa di concettualismo (McQueen, prima che un regista, è un artista; il suo film è un progetto; la messa in scena di ogni sequenza allude puntualmente ad altro dall’immediatamente visibile), Shame rende emotivamente concreto un pensiero fittamente e soffertamente pensato. Più o meno quello che ci si aspetta da un’opera d’arte.
Non è un caso che il dibattito intorno a Shame sia assolutamente escluso dal circuito comunicativo principale/ufficiale, se non per tirare in ballo quegli spunti pruriginosi inevitabilmente connessi alla sua materia narrativa e farne carne da (modesto) macello scandalistico. Al contrario ACAB – All Cops Are Bastards, che mentre ne scrivo è solo al quarto giorno di programmazione, ha già occupato senza troppa difficoltà non solo le pagine delle riviste dedicate, ma anche spazi di visibilità non specialistici: citato come possibile messa in scena anticipatoria di scenari caldi prossimi venturi (In ½ ora, RAI Tre), strumentalizzato a fini politici dalla peggior stampa destrorsa (Francesco Borgonovo) o, ancora, oggetto di contestazioni pubbliche da parte di gruppi di estrema sinistra, rilanciate poi anche in tv (Le invasioni barbariche). Tanto refrattario, il film di McQueen, a un riduzionismo massmediatico che degrada la complessità dell’opera poetica alle ragioni di un racconto calcistico dell’esistente, quanto il film di Stefano Sollima sembra perfettamente adattarvisi. Personalmente, terminata la visione di ACAB, il primo istinto è stato quello di rimuoverlo. Non perché ne fossi indignato (per quanto faccia mie per intero le considerazioni già apparse su queste pagine) o, viceversa, sentissi intimamente minate le mie civiche convinzioni progressiste. L’istinto di sbarazzarmene era legato a un malessere, nasceva da una specifica condizione spettatoriale in cui il film mi aveva tenacemente costretto per tutta la sua durata. ACAB è una di quelle opere che restringono invece di allargare il campo visivo/concettuale, riducendo il reale a un agone insanguinato in cui si affrontano due istanze aggressive ed escludenti che non ammettono altro da sé. Tertium non datur, ci urla ACAB in dolby surround: da una parte i celerini fascisti, dall’altra la piazza (indistinta, informe, inconoscibile: perciò ancor più spaventosa), il mondo intero come campo di battaglia e nessun punto di fuga per l’occhio agonizzante. Lo spettatore, assordato e accecato, farà bene a schierarsi al più presto.
“Celerino figlio di puttana” canticchiano e fischiettano più volte, in ACAB, i quattro poliziotti bastardi, che poi festeggiano l’assoluzione in tribunale di uno di loro cantando e ballando su Police on my back, sovversivo inno seventies dei Clash. Sono i segni ostentanti di una ricercata, programmatica ambivalenza che Sollima e la sua squadra di sceneggiatori (Daniele Cesarano, Barbara Petronio e Leonardo Valenti) infondono nei personaggi. Perché il nero e il bianco, il male e il bene, convivono nelle stesse anime, e lo scenario di profonda crisi sociale e morale in cui viviamo, la «mutazione antropologica» che da Pasolini in poi sappiamo, rendono le psicologie meno coerenti e monolitiche, le dinamiche sociali meno leggibili che in passato. In realtà però quest’ambivalenza è più detta che altro e non sembra alludere a una reale complessità. Pare, anzi, un espediente ostentato e un po’ spiccio per sopperire a un’autentica profondità di sguardo. Il pesante determinismo del film, che segue una logica di rappresaglia audiovisiva in cui all’azione violenta A corrisponde puntuale l’azione violenta B, è la vera cifra di ACAB. Se Sollima cerca la complessità, trova in realtà solo il disorientamento sociologico-politico inquadrato da un occhio puramente impressionistico, che non si solleva mai dall’asfalto, rimanendo così incapace di mettere a fuoco l’odio sociale copiosamente mostrato; di capire. Non ho letto il libro di Carlo Bonini a partire dal quale Sollima e soci hanno lavorato in sceneggiatura, ma sono convinto che il film, ogni film, abbia una sua autonomia. E l’urlo di ACAB, il film, stordisce sistematicamente la Ragione e occlude lo spazio della dialettica. Così facendo, esso spalanca accogliente le proprie porte al tifo organizzato spettatoriale, si predispone cioè a un’accoglienza non critica ma necessariamente faziosa, a un dibattito, per tornare a bomba, i cui partecipanti, assisi per lo più in gruppo su spalti opposti, non fanno che gridare a squarciagola la propria appartenenza, non le proprie ragioni. Più volte, a ridosso della presentazione del film, spesso trovandosi a fronteggiare le critiche venutegli da sinistra, Sollima ha evocato l’eredità del poliziesco all’italiana (di cui suo padre Sergio è stato negli anni ’70 buon interprete) e rivendicato al suo film la matrice nobile di prodotto di genere. In realtà, a ben guardare, ACAB non sembra per nulla riconducibile a quella provenienza. Troppo invadenti le dinamiche psicologiche dei personaggi rispetto all’azione pura; troppo rappresentative le loro storie per non alludere subito ad altre storie e ad altri uomini; troppo sfrontati i riferimenti storici (l’uccisione del commissario Raciti e quella del tifoso laziale Gabriele Sandri, per non parlare di Genova 2001); troppo immediato e «consapevole», in buona sostanza, lo slittamento dal «micro» della story al «macro» di un discorso complessivo sulla società italiana. ACAB si percepisce e si offre al pubblico come film d’autore (un controcampo brutto de La haine di Kassovitz, mi viene di dire) e questo non è indifferente, soprattutto rispetto al problema, così delicato, della messa in scena della violenza. Perché i margini del genere spiegano e «proteggono», inscrivendo il mostrato dentro un modello codificato condiviso di rappresentazione. La violenza nel poliziesco finisce per essere pura forma, come l’omicidio nel thriller o il bacio nel romance; elementi sovrastrutturali che funzionano come ancoraggi noti nel nostro rapporto di conoscenza col film. Se invece la struttura del genere viene meno, di quella violenza si chiederà ragione in maniera diversa; come di una rima al poeta. Ma se poliziesco voleva essere, proviamo allora, per un momento, a seguire le impronte lasciate in ACAB da uno dei personaggi fondativi del genere (e non solo). Dopo poche sequenze il «Mazinga» interpretato da Marco Giallini, l’anziano e perciò più bastardo del nucleo dei bastardi, viene accoltellato in servizio, finendo in ospedale. Quando ne esce sembra cambiato, nutre dei dubbi. Giallini, andatura claudicante e sofferta, la recitazione nervosa fatta di muscoli facciali in impercettibile movimento su una maschera inespressiva, la figura lunga che si staglia tragica e solitaria in profondità di campo, palesemente eastwoodeggia, attivando meravigliose le connessioni dell’immaginario. Ma se quarant’anni fa Harry Callaghan, nella scena conclusiva di quel film-prototipo che sappiamo, dopo l’ultimo abuso compiuto in nome della sua legge, gettava via il distintivo, ponendosi così fuori da uno spazio di legalità e di pubblica rappresentanza, Mazinga compie qui un percorso quasi opposto: si riappropria nel finale del suo ruolo di celerino e si vota, manganello alla mano, a un destino eroico armato. Così tristemente distante anche dall’ultimo Eastwood, quello che ai duelli finali-sacrificali, combattuti in nome di una fratellanza scoperta forse troppo tardi eppur scoperta, ci è andato finalmente inerme.
Sono assolutamente d’accordo con te su Shame e sul perche è escluso dal “circuito comuncativo principale/ufficiale”…quando lo vedi ti rendi conto della sua irrudicibilità allo scandeletto salottiero, di come ci sia un pensiero ben più profondo(e problematico,complesso per questo respingente…) sull’uomo e il suo senso di solitudine/alienazione.Un cinema molto più politico dal mio punto di vista delle polemiche tra destra e i sinistra sui poliziotti buoni e i poliziotti cattivi…