"….Essere in grado di vedere cosa sta accadendo in una determinata situazione è la più grande dimostrazione di potere su quell’evento” (R.Wright-“videognosi”-Videoimago)

Don’t wait to be hunted to hide” (Samuel Beckett)

Linklater incontra Dick sul terreno scivoloso della questione dell’identità e della sua perdita, della (im)possibile definizione ontologica della realtà attraverso lo svelamento dei suoi annidati simulacri. Ma nello scrittore l’indagine filosofica, la fervida fantasia cospiratrice e l’esperienza estatica delle visioni sono costantemente esposte alla minaccia di un oscuro presagio: l’impossibilità di sfuggire alla sorveglianza di onnipotenti e onnipresenti apparati di controllo, pronti ad intervenire nel caso che un libero spirito creativo si spinga troppo avanti sulla pericolosa strada della consapevolezza.

Ed è proprio il procedimento di animazione rotoscopica, già utilizzato da Linklater nel precedente Waking Life per acquisire il calco, impreziosito, di una presunta verità fotografica, ad assumere qui una differente qualità formale del tutto adeguata alla paranoica, lievitante materia Dickiana.

In Waking Life ciò che stimolava maggiormente la percezione oculare era l’iper-cinetismo del tratto, un tentativo di traduzione “vettoriale” dell’impalpabile pulviscolo che circonda l’oggetto, connotandolo incessantemente di nuove fluide sembianze nel suo essere qui-ed-ora nel mondo reale. I molteplici strati translucidi di segno grafico e campiture di colore riflettevano lo stato (tra)sognato, delirante, felicemente pre-mortem del giovane protagonista, l’eccitante condizione di adepto al tempio di una cultura eterodossa, di viaggiatore lisergico che attraversa confini spazio-tempo e dimensioni esistenziali per mettersi in proficua relazione con idee, teorie filosofiche, movimenti di pensiero rivoluzionari.

Diversamente da quel libertario prototipo tecnico, qui “l’oscuro scrutare”, il filtro posto davanti alla visione fotografica, diventa l’esito senza scampo di una società immersa nella perversione della sorveglianza totale, così che la realtà congetturata appare marcata da un tratto scuro e pesante, le forme ingabbiate dentro contorni invalicabili.

Siamo insomma più prossimi a un cupo espressionismo alla Schiele che al giocoso e divagante attraversamento delle avanguardie figurative che contraddistingueva il precedente esperimento rotoscopico.

In Scanner Darkly soltanto all’agente infiltrato Arctor e al suo ignoto superiore è data l’occasione di sottrarsi alle maglie dell’identificazione biometrica e della controllo diffuso (di cui loro stessi sono peraltro i rappresentanti legalizzati) indossando speciali avveniristiche tute:

La tuta disindividuante è realizzata con un milione e mezzo di frammenti di rappresentazioni di uomini donne e bambini in ogni possibile variante . Questo rende l’uomo che la indossa il signor chiunque.”

La sovversiva, incessante mobilità grafica transitiva che regnava sul mondo onirico di Waking Life la ritroviamo adesso resa innocua e asservita al potere, tutta incapsulata nella rappresentazione della tuta, prodotto di una tecnologia intrinsecamente reazionaria, concentrato compulsivo di morphing, simbolo del degrado identitario dei protagonisti.

La tuta garantisce sì l’anonimato, ma reca in sé il terribile rischio della perdita dell’identità per chi la indossa. In una società che ha introiettato lo sguardo della sorveglianza, infatti, sottrarsi al controllo corrisponde a una perdita di garanzie della propria stessa esistenza nel mondo.

La devastante sostanza D (ma nella versione italiana diventa M, “come mutismo, miseria e mancanza degli amici che vi abbandonano”), la droga che si diffonde come un retro-virus e che ha soppiantato ogni altra forma di dipendenza riducendo gli individui a vuoti simulacri, a paranoici e patetici freak, altro non è allora che uno degli strumenti nelle mani di oscuri apparati, “un modo per ottenere il potere, potere della mente sulla mente, in una quantità finora senza paragoni.” J. Bentham (1787).

I giovani protagonisti di Scanner Darkly, tutti sovradeterminati dall’uso-abuso della sostanza, comunicano tra loro con la metrica del linguaggio paranoico dove costante é la confusione tra reale e immaginario, tra dramma e tragicommedia..

Ecco allora che su un altro punto Linklater sembra condividere la visione Dickiana: la sola arma a disposizione in questa battaglia contro i guardiani invisibili nascosti nella torre panottica è una salda, lucida ironia; la capacità di depistare gli sguardi creando continue, inaspettate rappresentazioni di mondi possibili, di detournare le regole del gioco narrativo per avventurarsi con paura calcolata, in territori dove forse gli androidi sognano pecore elettriche.

* Panopticon (“che fa vedere tutto”) é il carcere ideale progettato dal filosofo inglese Jeremy Bentham. nel 1791, costruito in maniera tale che un sorvegliante possa vedere ogni prigioniero in qualunque momento da una torre centrale, senza però essere visto. I carcerati, sapendo di poter esser osservati tutti insieme in un solo momento dal custode avrebbero introiettato la sorveglianza e assunto comportamenti disciplinati e garantito l’ordine rendendo nei fatti inutile la necessità della sorveglianza.


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