Come Grido, Paura e Amore carne, Sangue rappresenta nella filmografia di Delbono uno dei film più estremi, per molti aspetti sgradevoli, simbolici e frammentati, progredente sulla mappa tortuosa della complessità. Il frammento è insieme tema e forma, è stato giustamente detto. Ed è anche dichiarazione di incompiutezza, di incapacità di chiudere il senso dentro una ordinata linea retta, di rapporto del frammento con l’assoluto che esso rappresenta e con il ponte di senso che esso crea relazionandosi, all’interno dell’opera, con gli altri frammenti. Un divenire di frammenti ci ricorda il qui e ora della nostra vita e ci spinge a cercare i possibili, incongrui percorsi annidati tra un brandello e l’altro, rappresentando anche la condizione di marginalità ricomposta nel movimento astratto del pensiero che mette in comunicazione i diversi confini.
Il mondo di Delbono è fatto di città distrutte che però non rinunciano a suggerire una possibile rinascita (l’Aquila che apre e chiude il film), ed è fatto soprattutto di corpi in primo piano -debordanti e intensamente veri-, di malattie, di perdite e di morte. C’è Margherita, la madre di Delbono che muore di cancro, c’è la malattia terminale di Anna, la moglie di Giovanni Senzani, protagonista del film insieme a Delbono, che gli è stata vicina per gli oltre venti anni di carcere, e c’è Roberto Peci, che il brigatista Senzani processò e uccise il 3 agosto del 1981. La morte è visibile attraverso Margherita, che Delbono accompagna e filma durante i suoi ultimi mesi di vita e nel momento stesso in cui muore, ed è invece assente rispetto alle altre due persone –o, meglio, possiamo dire che viene resa visibile attraverso altri modi: per assenza; per accostamento al racconto dei vivi; per avvicinamento tramite frammenti significativi al corpo di Margherita. C’è, dicevamo, la perdita. Il dolore di chi, dopo aver accompagnato chi muore fin e oltre la soglia, rimane e cerca di capire, di ricordare, di testimoniare -e anche di inseguire l’orma del sacro. Tutto questo suggerisce il tentativo, insomma, di dare forma a un contenuto che la nostra società si ostina a considerare un tabù -o rendendocelo irrappresentabile oppure mostrandocelo in una versione ripetuta, spettacolarizzata e anabolizzante. Delbono filma l’istante in cui la madre muore. Su questo aspetto sarebbe forse opportuno fare un approfondimento rispetto a quanto scritto in proposito da Bazin, ossia che la morte non può essere mostrata in quanto, ontologicamente, può solamente viversi -“è un interdetto”, dice Bazin. Questo insegnamento può valere ancora oggi o è stato superato dal doversi rapportare con la pratica, oscena e impazzita, del flusso manipolatore delle immagini della contemporaneità? Qual è il modo migliore con cui rapportarsi, oggi, all’”oscena” verità del corpo? Delbono, in una intervista radiofonica, ha raccontato di quanto, oggi, sia presente in lui l’urgenza di andare contro e oltre gli interdetti. Cadono, a nostro avviso, di fronte all’impostazione concettuale adottata da Delbono, le pregiudiziali che potrebbero opporsi alla forma del film, alla sua sgradevolezza e alla sua presunta oscenità, al suo mostrare con verità (non solo con realtà -la verità ha bisogno di un senso supplementare) ciò che fino ad ora è stato solo oggetto di messe in scena ridicole e violente oppure retoriche.
“I limiti umani non sono qualcosa di preordinato e statico: quando si incomincia davvero ad ascoltarli, la necessaria recettività, la nostra esperienza ne esce trasformata. Il limite sommo dell’uomo è la mortalità. Gli uomini, come dicevano i greci, sono i mortali. Senza morte –senza la capacità di fare l’esperienza del limite mortale, vale a dire di entrare attivamente in rapporto con la morte- non ci sarebbe umanità. Ma entrare in rapporto con la morte significa, innanzitutto, superare la sua visione imperante, meramente biologica” dice, all’incirca, Werner Herzog in un’intervista di qualche tempo fa, alla quale fa eco, lungo la linea delle affinità, quanto spiegato da Delbono sul senso di Sangue: “L’importante non è rapportarsi con i morti, ma con la morte. L’importante è la morte come fatto. Il segreto dell’arte è parlare della vita parlando della morte. Sangue è una cerimonia degli adii”.
Delbono con il suo cinema va dentro e oltre le cose che filma, si tiene lontano dalle narrazioni convenzionali mettendo a nudo vissuti privati e collettivi e partendo sempre da sé. E’ un cinema personale e autobiografico, il suo, in cui il narcisismo non è mai fine a se stesso bensì specchio di altro (fosse anche solo una grande generosità e un feroce desiderio di vita). Delbono sembra considerare il cinema come uno strumento costitutivamente atto a produrre memoria, anche questa privata e collettiva, come uno strumento di resistenza alla distruzione, come uno strumento poetico che favorisce l’immaginazione e lo sviluppo delle idee, un cinema che può e deve denunciare le menzogne e la mancanza di immaginativa del mare magnum di immagini fabbricate dalla logica del potere e dal suo corollario, la fuga nell’inutile e nell’indistinto. La scommessa di Delbono, allora, è nel rapporto tra parola e immagine (in Senzani e nel lungo racconto-confessione sull’omicidio di Peci), nella costruzione di una verità e nel suo svelamento per “assenza”. Senzani si appiglia alle parole, alla razionalità, ma alla fine rimane schiacciato dal non riuscire ad assumersi la responsabilità dell’orrore –non guarda mai in macchina, rimuove lo sguardo-specchio dell’altro. Usa la razionalità come strategia. L’orrore per lui sembra non esistere; eppure è lì, davanti ai nostri occhi, appunto in ogni deviazione del suo sguardo dalla videocamera, dall'”altro” Delbono, da noi. La sua razionalità, che è difatti ciò che, nella forma di un confronto politico e storicizzate, gli è stato negato a favore di una mera colpevolizzazione (che non può produrre coscienza ma solo enfatica confessione liberatoria o rimozione), prende la forma del muro dietro il quale si nasconde.
I corpi di Delbono, come accade nella pittura, con la loro presenza concreta e corporea che diventa simbolo di qualcos altro, finiscono per trasmetterci uno stato di coscienza che ogni volta polverizza qualsiasi tentativo di rimanere indifferenti.
Forse – e lo dico non in senso negativo, anzi – il punto di non ritorno del cinema di Delbono: che cosa si può mostrare oltre la morte della propria madre? Forse solo la propria morte?